C’è ancora da festeggiare in un Paese in cui il reato del femminicidio è diventato un’ermergenza?
Alla vigilia della “Giornata Internazionale della Donna”, ormai svilita e persino ridicolizzata dal business che ruota intorno all’8 marzo, una riflessione è doverosa. Dopo una campagna elettorale tra le peggiori che il nostro Paese ricordi, tra una promessa utopica e una spudorata bugia, tra un “voto utile” (a chi?) e una “alleanza”, dobbiamo fare i conti con i temi, urgenti, che non sono stati affrontati con serietà e concretezza, con la proposta di soluzioni credibili e efficaci. Tra questi, certamente, c’è il mostro del femminicidio, che in Italia è sfociato ormai in una situazione emergenziale.
Ogni anno, in Italia come nel resto del mondo, troppe sono le donne picchiate, violentate, torturate, mutilate e spesso, troppo spesso, barbaramente uccise da uomini in virtù del loro “essere donna”. Come se non bastasse, a fare da apripista a certi fatti ci sono l’indifferenza e la superficialità di istituzioni sorde e cieche, del tutto incapaci di arginare il fenomeno, e di una politica assente e troppo presa da egocentrismi, personalismi e sete di potere.
L’unica cosa che la politica italiana è stata capace di fare è l’inutile e vuota legge sullo stalking, una legge-farsa che non ha fatto diminuire la violenza domestica né, tantomeno, il numero delle donne uccise dai propri compagni, ex compagni, mariti, ex mariti, fidanzati, ex fidanzati. Una legge che non previene né reprime il fenomeno.
Forse è utile ricordare che pochi mesi fa l’Onu lo ha detto chiaramente: in Italia il femminicidio è “un crimine di Stato”, perché le Istituzioni, nonostante le numerose sollecitazioni, non si stanno impegnando abbastanza per fermare un’ondata di violenza e morte che assume sempre più i connotati di una inarrestabile strage.
Mi chiedo, dunque, cosa ci sia da festeggiare. Specie dalle nostre parti.