E’ una leggenda locale che può essere definita “plutonica”, come tutte quelle riguardanti l’esistenza di tesori nascosti, e che viene arricchita, a seconda delle versioni, da altri particolari più o meno fantasiosi
Mi daranno atto gli affezionati (e spero non pochi) lettori che, nei precedenti contributi, ho sempre cercato di tenere i piedi saldamente a terra, attenendomi con scrupolo, per quanto mi è stato possibile, alle fonti e ai documenti consultati.
Una volta tanto però, complice il clima di rilassatezza delle appena trascorse vacanze estive, vorrei che mi fosse consentita un’eccezione per liberare il pensiero sulle ali di una ragionata fantasia.
Lo spunto mi viene offerto dalla nota leggenda della chioccia d’oro (“la òccula e li puricini ti oru”), preda bellica, sottratta ai Tarantini, che i guerrieri messapici avrebbero nascosto nel Fonte pliniano o in un altro punto segreto dell’antica città di Manduria.
Il solito Tarentini, nei suoi “Cenni storici di Manduria antica – Casalnuovo – Manduria restituita”, si è occupato della leggenda nel capitolo intitolato “La favola dei tesori”.
Le parole dello storico locale sono le seguenti: “Esiste qui una non mai interrotta tradizione ritenuta favolosa, che in questo od in quell’altro punto delle mura vi è un tesoro nel quale fra le tante ricchezze trovasi anche la chioccia con i pulcini di oro, bracciali armille, ecc., come se fossero stati veramente veduti. Molti ambiziosi che non mancano in ogni tempo e luogo, si son dati da fare scavando a diritta e a manca, voltando e rivoltando di notte tempo terra e sassi e gli insufficienti risultati avuti dagli uni hanno dato agli altri certa fiducia a mutare posizione sociale. Ecco anche questi all’opera slanciandosi come leoni e sudando come cavalli rotolando sassi qui, grossi macigni colà cavando terra e macerie altrove. Dopo i secondi, i terzi e via di seguito fino ad oggi e sempre con risultati nulli da dar luogo poi alle solite peripezie ed alle fiabe del volgo che crede il diavolo in possesso del tesoro che non cede se non a patti troppo duri e difficili.” (1).
La leggenda è stata ripresa da Giuseppe Gigli in “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d'Otranto” (Firenze, 1893) ed anche da Michele Greco che, nella nota dissertazione “Del Genio in riva…Lu Scegnu”, parla della “audace schiera” dei vittoriosi guerrieri messapici “che portava in omaggio al Genio del sacro Fonte il bottino di guerra, predato ai nemici, opimo tesoro, fra cui la chioccia d’oro con i pulcini anch’essi d’oro, riposti nel sacrario accanto alla fresca polla” (2).
Fin qui la leggenda locale, che può essere definita “plutonica” come tutte quelle riguardanti l’esistenza di tesori nascosti, e che viene arricchita, a seconda delle versioni, da altri particolari più o meno fantasiosi.
Infatti, secondo una prima versione, il tesoro può essere rinvenuto sacrificando sul pozzo un bambino o una bambina di non più di cinque anni, secondo un’altra è necessario che una donna gravida resti vicina al fonte, tenendo sul grembo nudo una serpe (3).
Ma quando mi interrogo sulle sorti del prezioso, quanto inafferrabile tesoro, l’accostamento inevitabile che mi torna alla mente e che, certamente, non sarò stato il primo ad azzardare, è quello con il famosissimo gruppo custodito nel Duomo di Monza, appartenuto, secondo la tradizione storica, alla regina longobarda Teodolinda.
E’ il celebre capolavoro di oreficeria, volgarmente denominato “Pitta teodolindea”, raffigurante una chioccia e sette pulcini presi nell'atto di beccare dal suolo, realizzato, quanto alla chioccia, in lamina d'argento dorato su anima di legno, con gemme, vetri e intaglio in sardonica. La figura è stata lavorata a sbalzo e rifinita a bulino e a punzone, mentre la cresta (doppia) è stata incastrata in una fessura della testa e le zampe sono state modellate a parte. I pulcini, invece, sono stati ottenuti per fusione.
Il basamento originale pare che fosse in argento, mentre è ora costituito da un disco in rame dorato.
Le misure complessive del gruppo sono le seguenti: base ø 46 – h 27 cm..
A questo punto, inevitabilmente, i lettori più accorti dovrebbero chiedermi: ma, a parte la identità del soggetto, quale relazione può avere il capolavoro di committenza teodolindea e, quindi, longobarda, databile all’alto medioevo, con il leggendario gruppo mandurino che, ove fosse realmente esistito, avrebbe avuto tutt’altra datazione in quanto sarebbe stato (sempre a prestar fede alla leggenda) opera di oreficeria tarentina o magnogreca?
La risposta a prima vista scontata, nel senso di stroncare sul nascere, per ragioni di tempo e di manifattura, ogni possibile accostamento, non è poi così ovvia, e ciò per le ragioni che qui di seguito cercherò d’illustrare.
Innanzitutto, la cronologia del gruppo monzese è molto discussa.
Ad una quasi univoca attribuzione ad un artefice longobardo dei sette pulcini, ottenuti, come si è detto, con la tecnica della fusione, si contrappongono invece una datazione ed una manifattura più antiche per quanto riguarda la chioccia.
Infatti, quasi tutti gli studiosi, sembrano concordi nel ritenere che:
“La plasticità della chioccia, dalla volumetria del corpo solidamente costruita, e dei pulcini, tutti realizzati con il piumaggio e le ali resi con particolare attenzione naturalistica, con rifiniture a bulino, tende ad escludere una cronologia tarda, d’età romanica, in favore di una datazione più alta, all’interno di un clima artistico maggiormente attento alla verosimiglianza con la natura” (4).
Senonché, nel precisare meglio la cronologia di questa figura di animale, alcuni propendono per una datazione bizantina o tardo romana, altri per una ancora più risalente nel tempo, scorgendo nell’opera tracce dell’arte e dell’oreficeria greca o ellenistica.
L’argomento utilizzato dai fautori di quest’ultima ipotesi (provenienza della chioccia da una bottega greca o ellenistica) è costituito soprattutto da un particolare presente nel manufatto.
Come già anticipato, le sculture sono impreziosite da gemme, più precisamente rubini o granati nella gallina e zaffiri nei pulcini. Tra queste pietre preziose, la gemma che costituisce l’occhio sinistro della chioccia, la quale presenta incisa la figura di un guerriero è, secondo alcuni, un prodotto alessandrino del III-IV secolo, che avrebbe potuto far parte del castone di un anello, secondo altri è un sigillo della fine I° sec a.C. inizio I° sec d.C..
In ogni caso, quindi, l’epoca di realizzazione della parte più significativa del gruppo dovrebbe essere riportata indietro di molto, essendo di più certa attribuzione longobarda e, quindi, altomedievale, solo la fattura dei pulcini e l’assemblaggio del gruppo scultoreo.
Ma un'altra obiezione o interrogativo che è lecito porsi é certamente il seguente: ammesso che, come la leggendaria chioccia mandurina, anche il gruppo aureo monzese sia (almeno in parte) di fattura greca, quale collegamento storico e geografico potrebbe mai sussistere tra la corte reale longobarda, a cui il manufatto è appartenuto, ed il nostro territorio?
La risposta può esserci fornita dalle vicende storiche che hanno interessato Manduria antica dopo la sua distruzione.
Gli storici locali sono concordi nel ritenere che il territorio dell’antica Manduria sia stato, in tutto o in parte, occupato dai longobardi per essere inglobato in uno dei ducati meridionali, probabilmente quello di Benevento.
Sempre il Tarentini, nella sua opera già citata, ritiene che, sebbene le memorie patrie tacciano, “io seguendo le varie vicende delle altre città limitrofe argomento che Manduria da questo periodo di rovinio al 750 fu sotto la dominazione e leggi longobarde” (6). Ciò sarebbe avvenuto quantomeno per la parte occidentale del suo territorio, ricadendo, sembra, quella orientale nell’area di influenza bizantina.
Del resto che la cultura e la legislazione longobarda abbiano lasciato traccia della loro presenza è attestato da alcune nostre parole dialettali di chiara origine germanica e dal fatto che istituti della lex langobardorum operassero ancora nel diritto di famiglia del secolo XVI e XVII, così come attestano gli atti dei notai casalnovetani di quell’epoca. Il riferimento è soprattutto alle costituzioni dotali di quell’epoca, nelle quali per la donna ricorre spesso l’istituto del “mundium” (tutela femminile) e la figura giuridica del “mundualdo” (tutore).
Quindi, la presenza, neppure tanto occasionale, nel nostro territorio di questa popolazione è da ritenersi certa.
Giunti a questo punto del discorso, pertanto, si potrebbe anche pensare o, forse più correttamente dovrei dire, immaginare che il gruppo scultoreo custodito nel museo monzese sia proprio quello oggetto della leggenda mandurina, il quale potrebbe essere stato scoperto o predato dai nuovi invasori longobardi quando essi giunsero nelle nostre contrade e, sempre da costoro, trasferito alla corte dei loro sovrani.
Anche la cronologia del manufatto potrebbe, sulla base di studi più accurati, essere spostata indietro, ipotizzando una fattura tarentina o magnogreca dell’opera.
Del resto è noto (e gli ormai celebri Ori di Taranto ne sono testimonianza) il livello di perizia e di perfezione raggiunto dalle botteghe orafe della città bimare.
Alcuni oggetti di oreficeria tarentina sono lavorati a sbalzo su lamina in oro e, insieme agli altri, costituiscono la più importante testimonianza di come la lavorazione dei metalli preziosi, e in particolare dell'oro, fosse una delle attività più sviluppate nella città della Magna Grecia tra il IV e il I secolo a.C..
Ovviamente, si tratta di ipotesi e di congetture personali, sorrette da pochi debolissimi indizi, ispirate più da amor patrio che da rigore scientifico, e per le quali sin d’ora chiedo venia agli studiosi del settore.
Ma, nel fare questo, ho appurato di essermi trovato sempre in buona compagnia.
Infatti, la leggenda della chioccia e dei pulcini d’oro ed il suo accostamento con il manufatto appartenuto alla regina Teodolinda è riportata per molti altri centri e località italiane.
Tra queste, per parlare solo di alcune, cito Longobucco (Catanzaro) centro calabrese in cui si troverebbe la Chioccia della Gnazzitta, nascosta sotto un masso, Novara di Sicilia dove una chioccia aurea apparirebbe, come quella mandurina, solo nel caso in cui fosse sacrificato un neonato nel luogo in cui essa è nascosta, Riello (Viterbo), Lucca, Malmantile (Firenze), Cirò in Calabria, Randazzo sempre in Sicilia ed altri ancora.
Ancora, va detto che, per una singolare e forse significativa combinazione, la leggenda della chioccia con i pulcini d’oro, che le tradizioni locali legano al nostro celeberrimo Fonte, illustrato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, ricorre con piccole variazioni per un’altra località descritta sempre dallo stesso autore latino.
Narra, infatti, Plinio il Vecchio che Porsenna, il lucumone (re) della potentissima città di Chiusi, si sarebbe fatto costruire un mausoleo o tomba monumentale nei cui sotterranei avrebbe ricavato un labirinto nel quale, secondo una tradizione medievale, sarebbe stato seppellito insieme ad un tesoro, comprendente un carro aureo tirato da dodici cavalli ed una chioccia con pulcini sempre in oro.
Per la precisione Plinio in Naturalis Historia XXXVI, 13, racconta che il re etrusco: "... fu sepolto sotto la città di Chiusi [...] dentro questa base quadrata un labirinto inestricabile nel quale se qualcuno entrava, non poteva trovare l'uscita senza un gomitolo di filo ...".
Le tradizioni toscane aggiungono invece la storia del cocchio trainato da 12 cavalli tutto d'oro, e della chioccia con cinquemila pulcini, anch'essi d'oro.
Sta di fatto che, effettivamente, nella città di Chiusi è stato ritrovato un complesso di cunicoli e gallerie sotterranee detto il Labirinto di Porsenna (5).
Un ultima notazione merita la circostanza che alla Pitta di Teodolinda alcuni studiosi attribuiscono il significato di una rappresentazione metaforica delle Pleiadi, costellazione nota sin dall’antichità, la cui denominazione fa riferimento alla mitologia greca antica e, per la precisione, alle sette figlie di Atlante e di Pleione, nate in Arcadia.
Queste, un giorno che erano inseguite dal gigante Orione, furono trasformate in stelle da Giove che aveva così voluto sottrarle al pericolo. I loro nomi sono: Maia, Elettra, Taigete, Alcione, Celene, Asterope e Merope.
Nella simbologia astronomica, infatti, la chioccia con i pulcini indica solitamente le Pleiadi, volgarmente la “Gallinella”, formazione di stelle della costellazione del Toro, segno di fertilità, alla cui presenza nella volta celeste erano legate previsioni climatiche. La sua apparizione nel cielo notturno indicava per i contadini il momento di avvio al lavoro nei campi.
Orbene va detto che, per una curiosa combinazione, in detta costellazione, visibile nel cielo come un mucchietto di chiarori formato da sette stelle, anche il popolo manduriano vede tradizionalmente la “Puddara”, ossia proprio la chioccia circondata dai suoi pulcini.
Per finire, sottolineo che, in tutti i casi esposti, il dato comune è che, ovunque, nelle località sopra citate, gli studiosi ed i cultori di miti e di leggende si affannano nel fare accostamenti ed identificazioni tra le “chiocce locali” ed il famoso gruppo monzese.
Perché mai, allora, non dovremmo farlo per la nostra cittadina, per la quale la leggenda tramandata ab immemorabili si mescola mirabilmente con la storia e con i monumenti, dando vita a coincidenze talvolta singolari e dense di significato?
Come già osservava il Tarentini, riusciremmo anche a giustificare l’accostamento, affermando che: “sotto il velo della favola e delle allegorie si nasconde la storia di molte e svariate cose”, mentre, prendendo in prestito le felici parole di Michele Greco, potremmo concludere che: “…sotto l’antro sacro […] fioriscono le leggende che molte volte son splendenti e vive fonti di storia vera.” (6-7).
Giuseppe Pio Capogrosso
(1) Tarentini sac. Leonardo, “Cenni storici di Manduria antica, Casalnuovo e Manduria restituita”, Tip. Spagnolo – Taranto, 1901.
(2) Greco Michele, “del Genio in riva…lu scegnu”, testo della conferenza tenuta dall’autore il 3 febbraio 1957, in M.Greco, G.Jacovelli, B.Tragni “Lu Scegnu ritrovato” Tiemme Manduria 1995.
(3) Giuseppe Gigli, “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d'Otranto” (Firenze, Tipografia Barbera, 1893), pag. 56.
(4) Flamine Marco, “Opere d’arte bizantina in Lombardia”, tesi di dottorato di ricerca, Univ. di Milano a.a. 2012/2013 che cita R. Farioli Camapanati, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia dal VI all’XI secolo, in I Bizantini, 1982.
(5) Fabrizi, Chiusi: Il Labirinto di Porsenna - Leggenda e realtà, Calosci Ed., Cortona 1987).
(6) Tarentini sac. Leonardo, op. citata.
(7) Greco Michele, op. citata
(8) Le immagini, nell’ordine, riproducono la Chioccia con i pulcini custodita nel Museo del Duomo di Monza, il Fonte Pliniano in una foto ed immortalato in un noto acquerello di A.L. Ducros del 1778, la regina Teodolinda ed un guerriero longobardo.