Le intense giornate del Festival del Cinema Europeo di Lecce
Il ritardo è una mia prerogativa. Questa mia “sindrome” si è manifestata anche a fronte del Festival del Cinema Europeo, evento culturale che si svolge annualmente nella primavera leccese. Arrivato in ritardo, dunque, ma quel giorno che ho perso non mi impedirà certo di buttar giù un buon numero di righe su questa joint-venture di talenti italiani e stranieri.
Mercoledì 14 aprile, secondo giorno del festival, arrivo trafelato di corsa al citiplex S. Lucia, quartier generale della manifestazione. Quei venti minuti di bicicletta al giorno sono valsi a molto. In sala 2, si è svolto un interessante dibattito chiamato “Omosessualità: il costo del silenzio in famiglia e a scuola”, organizzato dall’A.GE.D.O. (Associazione di Genitori Di Omosessuali) a cui è seguito il film documentario 2 volte genitori, diretto da Claudio Cipelletti e prodotto dalla stessa A.GE.D.O. una sorta di moderno Comizi d’amore (1965) di Pierpaolo Pasolini, in cui, però, la tematica centrale delle varie interviste è l’omosessualità nel momento in cui gay e lesbiche fanno outing con i propri genitori.
Quest’anno il Festival del Cinema Europeo è stato dedicato alla famiglia Verdone; costanti, infatti, le maratone di film diretti da Carlo Verdone, tra cui l’ “ultimo nato”, ossia Io, loro e Lara, pellicola che l’attore/cineasta dedica al padre, Mario Verdone, recentemente scomparso e a cui è stato dedicato un mini documentario-intervista ed istituito un premio in suo nome da assegnare ad un giovane autore che si è distinto nella ultima stagione cinematografica.
Insieme al mio entusiasmo nel vedere tanti “Verdone-movies” tutti insieme ed incontrare anche il Carlo Nazionale in persona (ho una foto con lui) accompagnato dalla bellissima Laura Chiatti e dal goliardico Christan De Sica, ho avuto modo di rifarmi gli occhi con l’autore internazionale di quest’edizione 2010: il regista turco Yilmaz Güney. È stato come aprire le porte della propria percezione.
Non avrei mai immaginato di ritrovare un Sergio Leone anche nella patria di Ataturk. I film di Güney somigliano molto ai western del regista italiano. Se la “trilogia del dollaro” ed altre pellicole sul far west hanno dato a Leone la scherzosa nomea di “creatore di spaghetti western”, il cineasta turco, pur ambientando i film in età contemporanea, meriterebbe una definizione del tipo “creatore di çorba western” o giù di lì (la çorba è una zuppa tipica mangiata in Turchia, nda). Molto analoghe le inquadrature delle espressioni facciali, i campi lunghi, le ambientazioni rocciose e sporche, la costante povertà dei personaggi, il brigantaggio “eroico” dei banditi, i duelli e così via.
Mentre scorrevano i titoli di coda di Elegia, una di queste pellicole turche, ho detto fra me e me: “E GÜNEY CHI LO MOLLA PIÙ?”. Altra sorpresa è stata il film Shadow, di Federico Zampaglione, presentato in anteprima al festival. Il frontman dei Tiromancino, a dispetto dei suoi successi musicali così introspettivi e romantici, ci ha regalato un ottimo horror “di razza”, come si facevano una volta; non per niente Zampagliene lo ha introdotto citando maestri del brivido e dello splatter di casa nostra come Lucio Fulci e Mario Bava.
Tecnicamente il romantico cantautore de La descrizione di un attimo non ha deviato d’una virgola quelli che sono i parametri di un buon horror e soprattutto di un buon film. Ottime le trovate grottesche, come l’inserimento della canzone C’è una strada nel bosco durante una scena d’inseguimento notturno in aperta campagna. Effetti speciali veramente impressionanti e realistici. I cattivi danno un senso d’ansia, odio, paura ed inquietudine quasi palpabili.
Durante il film è frequente la presenza dei bus, ossia le sequenze atte a far scaturire il proverbiale “balzo dalla sedia”. Concludendo su Shadow, oltre ai ragguardevoli risultati in materia di horror e tecnica, c’è da evidenziare il contenuto politico dell’opera. Il film è un microsaggio filosofico che trasmette allo spettatore il seguente messaggio: l’orrore dell’immaginario coincide molto spesso con l’orrore del reale. Il monito è rappresentato dal contesto; il protagonista è un soldato che sta combattendo in Medioriente. Le rivelazioni, però, possono anche volgere in negativo.
Un paio di pellicole, nonostante le premesse, sono state piuttosto deludenti. Si tratta de La città invisibile di Giuseppe Tandoi e Due vite per caso di Alessandro Aronadio. Il primo film è un indiscutibile spaccato del popolo aquilano vittima del violento sisma avvenuto lo scorso anno; la nota dolente sta nella scelta dell’autore di rappresentare tale spaccato attraverso una stucchevole commediola sentimentale in stile musicarello anni ’60 mista al “miglior” Federico Moccia. La pellicola di Tandoi, per essere a basso costo, è ben girata, ma i cliché da Il tempo delle mele a mio avviso non riescono ad indorare la pillola della tragedia abruzzese ma, anzi, rendono il film quasi frivolo e superficiale nonostante l’omaggio ai terremotati sia ben in vista.
Due vite per caso è il classico film “a cuneo”, ovvero prima ha un certo rilievo e poi si assottiglia e perde spessore sino al finale. L’idea alla Sliding Doors sulla casualità degli eventi è ottima; nel film due ragazzi tamponano l’auto di due perfidi poliziotti che li pestano, poi subito dopo la scena si ripete, ma non tamponano l’auto e da lì i destini prendono una piega totalmente diversa. I nei dove sono? Sono nelle inquadrature, troppo ravvicinate o troppo mosse; sono nell’inspiegabile dovere d’ufficio di avere un protagonista belloccio e che sembra dipendente dal pentotal tanto è depresso. Sono soprattutto, nel finale, nella superficialità di identificare nel “caso” la carica delle forze dell’ordine contro i dimostranti. L’esperienza è stata formativa per ciò che mi riguarda, sono stato totalmente rapito dall’attività artistica e culturale di quest’evento. Sono ricorso anche ad una sorta di “nomadismo con i soldi” pur di non perdermi nulla: pranzi e cene frugali nei bar. Tale nomadismo ha fatto in modo che io assistessi sino all’ultimo minuto della manifestazione, ed infatti ora viene la parte delle premiazioni. Per un gioco del caso –tornando ad Aronadio- e per problemi di posti mi sono ritrovato fra i sedili della platea riservata in sala 1 in modo da veder bene il palcoscenico nonostante una fame accecante.
I premi sono stati consegnati dai fratelli Verdone ed in giuria c’erano altri grandi nomi del cinema tricolore come Andrea Crisanti, scenografo del film Nuovo Cinema Paradiso (1988), capolavoro di Giuseppe Tornatore. Nessun vincitore italiano, purtroppo…forse è colpa del “caso”. Attendo con ansia la prossima edizione, con la speranza di non perdere neanche un giorno e che sia costruito un ristorante vicino al Citiplex S. Lucia.
Francesco Pasanisi