domenica 24 novembre 2024


21/10/2022 10:51:21 - Manduria - Cultura

In tutto il romanzo, le storie, disseminate di coincidenze e di rimandi al passato, sono come granelli di sabbia che messi insieme formano una tempesta, spesso paragonata dall’autore al destino

Zaino in spalla e una oscura profezia nel cuore: è questo il carico pesante con cui Tamura Kafka, quindicenne in compagnia di sé stesso, parte da Tokyo, città in cui è nato e risiede con il padre, alla volta della regione dello Shikoku. In realtà, quella di Tamura è una fuga, programmata nei minimi dettagli in circa due anni, da attuarsi il giorno del suo quindicesimo compleanno, allo scopo di sfuggire a quella che più che una profezia gli sembra una maledizione. Definita in vari modi («La profezia era sempre lì, torbida come acqua stagnante», p. 10»; «E lì c’è la profezia, come un ingranaggio sepolto dentro di me», p. 11; «Quella non è una cosa di cui possa parlare con chiunque», p. 80), la profezia era stata pronunciata da suo padre, era terribile e inevitabile. «—Mio padre mi disse che, qualunque cosa avessi fatto, non sarei mai potuto sfuggire alla profezia. Disse che era come un congegno a orologeria sepolto dentro i miei geni, e che non potevo fare nulla per cambiarla» (p. 221). Tamura non ha nessun legame affettivo con il padre, che considera legato a un qualcosa, una ‘fonte di potere’ in grado di contaminare e distruggere tutto ciò che lo circonda, inevitabilmente. «— E io ho ereditato metà di questi geni. Forse è per questo che mia madre, andandosene, mi ha lasciato. Credo che mi abbia abbandonato come si fa con una cosa che è nata da una fonte impura, una cosa malata, guasta» — dice Tamura (p.222).

Borsa di tela a tracolla, ombra che si proietta a metà e la chiara consapevolezza di essere stupido: questa la figura di Nakata, sessantenne che, da bambino, in seguito ad un misterioso incidente avvenuto in un boschetto durante la seconda guerra mondiale, ha perso qualsiasi facoltà intellettiva, acquistando però la capacità di parlare con i gatti, e non solo. Bizzarri fenomeni accompagnano Nakata lungo il suo percorso. È lui stesso a presentarsi, parlando di sé, sempre in terza persona: «Nakata non capisce bene ciò che si sta dicendo (…) Nakata non è molto intelligente (…) Fino a nove anni Nakata sapeva leggere e scrivere come tutti, ma ebbe un incidente e da allora ha perso la capacità. È anche un po’ stupido» (p. 182). Ogni tanto Nakata staccava l’interruttore del suo cervello e si sintonizzava su un’altra frequenza: «Questa per lui era un’azione molto naturale (…) fluttuare, come una farfalla, al confine della propria coscienza. Oltre il confine si spalancava un abisso buio. Ogni tanto superava un po' quel confine, e sorvolava quell’abisso che dava le vertigini. Ma Nakata non aveva paura di quel buio e di quella profondità  (…) Lì vi era il tutto» (p. 91).

Le due storie (di Tamura e di Nakata) corrono parallele, arrivando a sfiorarsi senza intersecarsi mai. Elemento comune la descrizione precisa e circostanziata di luoghi e il divenire di situazioni a cui i due protagonisti non possono sottrarsi. Tamura e Nakata, infatti, hanno una percezione del presente come un corso di eventi affatto logici e lineari, ma sono costretti ad affrontarlo, come spinti da una forza superiore.

Tamura si ritrova a Takamatsu, a collaborare in una biblioteca, anzi ‘a diventarne parte’, a rifugiarsi nella casa in montagna del suo amico Oshima per sfuggire alla polizia, a conoscere la signora Saeki e il suo passato visionario. Takata, incapace di allontanarsi dalla sua città, si ritrova a Tokyo seguendo un misterioso cane nero, e di lì in vari luoghi, accompagnato a persone che lo aiutano negli spostamenti, fino a giungere anch’egli a Takamtsu, nella biblioteca della signora Saeki. Naturalmente per caso, «roba da brividi» — dirà Hoshino (compagno di viaggio di Nakata). 

Accade così che man mano che il lettore affonda la sua attenzione nelle pagine tutto diviene surreale, magmatico, ai confini dell’immaginazione, del mondo, del sé, fino a giungere all’ombelico del romanzo: un santuario scintoista abbandonato, all’interno di un’intricata foresta. È questo il cordone che lega a sé tutte le storie della storia: nella radura che precede la foresta avviene il misterioso incidente a Nakata durante la guerra; nel boschetto che circonda il santuario, Tamura si ritrova steso e stordito con la t-shirt sporca di sangue; al suo interno, Hoshino (compagno di viaggio di Nakata) preleva una pietra speciale, la ‘pietra dell’entrata’, l’unica che possa chiudere ciò che si è aperto e ristabilire così l’ordine delle cose, ormai fortemente deformato. Sarà questa la missione finale che porterà a termine Hoshino in nome di Nakata defunto. Infine, partendo dalla casa in montagna di Oshima e addentrandosi nella vegetazione più ostile, Tamura vivrà, giunto nelle viscere della foresta, la sua più profonda esperienza interiore: «la foresta non è che una parte di me. Io sto facendo un viaggio dentro me stesso (…) Tutte queste immagini sono nate e hanno messo radici dentro di me. Continuo ad avanzare nella foresta come se ci fosse un enorme cuore pulsante alle mie spalle a incalzarmi. Questa strada conduce a un luogo particolare del mio essere, alla sorgente luminosa dove si producono le tenebre e si creano echi senza suono. Devo scoprire cosa c’è là. Sono il messaggero segreto che porta un dispaccio importante, accuratamente sigillato, e destinato  a me stesso» (p. 436).

In tutto il romanzo, le storie, disseminate di coincidenze e di rimandi al passato, sono come granelli di sabbia che messi insieme formano una tempesta, spesso paragonata dall’autore al destino: «Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. (…) Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro. Non troverai sole né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca, finissima, come fosse fatta di ossa polverizzate, che danza in alto nel cielo. (…) Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato  (pp. 5-6)».

Il volume ‘Kafka sulla spiaggia’ di Murakami Haruki è disponibile in biblioteca.











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