Prima che nelle sale cinematografiche (dove è in programmazione in questi giorni), abbiamo conosciuto la vita di Marco Carrera, protagonista de ‘Il colibrì’, leggendo il romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del LXXIV Premio Strega nel 2020
Intrigante l’incipit, e foriero di curiosi intrecci narrativi: «Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri». Inutile descrivere un luogo minuziosamente, più utile raccontare cosa vi succede, «e qui sta per succedere qualcosa di importante». O meglio, «una delle cose che succedono in questa storia dalle molte altre storie succede nel quartiere Trieste, a Roma, in una mattina di metà ottobre del 1999».
È qui che si trova lo studio del dottor Marco Carrera, oculista, il quale riceve la visita di Daniele Carradori, psicanalista della moglie Marina, il quale, contravvenendo al più importante principio etico della sua professione, svela a Marco un certo piano rivelatogli dalla moglie, da attuare a suo danno, che egli ha ritenuto opportuno svelare. Se il fine giustifica i mezzi, quanto previsto dal piano di Marina viene meno proprio a causa, o per merito, dell’intervento del dottor Carradori. Andato in fumo il piano A, la donna passa al piano B, chiedendo una separazione dal marito per colpa, anzi per ‘colpe’, tutte quelle che poteva contestargli (e tutte rigorosamente false, eccetto una).
La difficile separazione matrimoniale non è che una delle tessere di un puzzle, lanciate in aria e lasciate ricadere nella vita di Marco, alla rinfusa, da un destino imprevedibile, come lo possono essere tanti, ma con una buona dose di fatalismo in più. Il puzzle va componendosi capitolo dopo capitolo, ognuno con il suo titolo e l’anno in cui la storia raccontata è avvenuta. Pian piano prendiamo a cuore ciò che accade a Marco, cercando fra le varie tessere quella giusta, talvolta tenendola da parte, in un tempo letterario sospeso, per essere sicuri che l’incastro sia quello giusto. Gli argini temporali del racconto, infatti, sono molto fluidi perché legati al procedere dei ricordi, poco rispettosi questi ultimi delle regole della narrazione cronologica. Tutto si comporrà alla fine del romanzo nel capitolo riportante l’anno 2030.
Ciò che accade nella vita di Marco sembra l’accanirsi di un destino imbizzarrito. La difficile amicizia con Duccio Chilleri: «talmente magro da sembrare sempre di profilo, era accompagnato dalla reputazione di portare sfortuna». Marco cercava di convincere tutti dell’assurdità della cosa asserendo che a lui per primo sarebbero dovute accadere le peggiori cose: «Ma ormai era impossibile rimuovere la crosta che si era solidificata attorno alla figura di Duccio Chilleri e perciò, a confutare il ragionamento di Marco era spuntata la teoria dell’occhio del ciclone (…) come non si subiscono conseguenze se ci si posiziona al centro dei vortici ciclonici (…) se ci si manteneva a stretto contatto con l’Innominabile, come faceva Marco, non si rischiava nulla» (p. 40). Teoria indubbiamente confermata salvandosi, loro due, dallo schianto senza superstiti di un aereo.
La morte è una costante importante nella vita di Marco. A cominciare dalla tragica e prematura morte della sorella Irene, amatissima e complicata, con il suo «viavai di umori, le sue scenate, i cupi periodi di silenzio, le sue illusorie rinascite» lasciatasi annegare a Bolgheri: «(…) la mente spenta senza più afflizioni, il corpo vuoto senza più posizioni, restituita dai Mulinelli alla superficie e giocherellata dalle onde sulla battigia (…)» (p. 209). Vent’anni dopo, a Firenze, la scomparsa a breve distanza di tempo di entrambi i genitori diventerà un tragico preludio per un’ulteriore, indicibile sofferenza. Marco sarà travolto dai lapilli di un destino incandescente. All’improvviso, Marco è ‘shakul’ (nella lingua ebraica, indica ‘chi perde un figlio’), ‘thaakil’ (in arabo), è in una condizione senza nome nella nostra lingua. Quell’ansia che aveva sempre saputo gestire quando sua figlia Adele, amante degli sport estremi, andava per escursioni, ora bloccava i suoi polmoni. Non esiste nella lingua italiana un termine che accomuni tutti quei genitori che ricevono la telefonata, quella telefonata che azzera la vita, «solo che lo zero nella vita non esiste». Ecco allora che in un puzzle dove si incastrano faticosamente perdite familiari atroci, sentimenti minati da crepe irreparabili e una forte volontà di soccombere, una tessera brilla di luce propria: è quella di Mirajin, la bambina dagli occhi a mandorla, profeticamente indicata dalla madre Adele (che non ha voluto sapere in anticipo il sesso del nascituro) ‘L’uomo del futuro’, nata in acqua in compagnia del nonno Marco: «Quel brodo torbido che li conteneva [fu] la sua unica esperienza di famiglia felice» (p. 177). «Lo zero nella vita non esiste», e Miraijin ne era la prova; durante la telefonata che annunciava a Marco la morte di Adele, la piccola «semplicemente svegliandosi e sorridendogli (…) gli disse nonno ci sono io devi sopportare» (p. 219).
Sullo sfondo dell’intero romanzo, l‘epistolario’ con Luisa Lattes, amore assoluto e mai consumato, rassicurante perché senza tempo. Sarà Luisa a rimodulare il senso del soprannome ‘il colibrì’, espressione di grazia e armonia nelle proporzioni, coniata per Marco dalla madre architetto quando, da ragazzino, non cresceva. «Mon petit colibrì» – sussurra Luisa, accarezzandogli la testa: «(…) tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei» (p. 296). Marco, nella sua vita costellata di accadimenti terribili e luttuosi, non precipita mai fino in fondo: il suo è un inno alla resilienza, il trionfo di strategie capaci di custodire al meglio il respiro primigenio della vita. Esattamente come quello del colibrì, il movimento incessante serve a Marco per rimanere fermo, ancorato alla vita e, quando il destino lo richiede, paracadutarsi per tempo, «perché sopravvivere non significhi vivere di meno».
Spiazzante il finale, e ricco di significativi spunti di riflessione. «Ormai la vita era andata com’era andata, non gli sarebbe mai passato per la testa di ‘migliorarla’ proprio alla fine» (p. 340). Eppure Miraijin Carrera ci era riuscita. Sua l’idea di invitare tutti nella casa di Bolgheri, dove Marco, ormai settantenne, guarda in faccia da tempo la sua malattia. Miraijin gli aveva chiesto se gli avesse fatto piacere la loro presenza, ma, di fronte al suo smarrimento: «In realtà non è per te che te lo chiedo —aveva detto— è per me, per noi che restiamo (…). C’era qualcosa di osceno in quell’idea che lo attirava, qualcosa di spudorato: allora aveva risposto che gli avrebbe fatto piacere». Commovente? «No, si è detto, se questa cosa ha un senso deve essere una specie di festa, un’esperienza vitale, gioiosa (…) (pp. 342-343): Marina, sua figlia Greta, Luisa, Giacomo, il dottor Carradori, Miraijin e Oscar il suo fidanzato, e infine… Rodrigo, venuto appositamente da Malaga.
‘Il colibrì’, di Sandro Veronesi, è disponibile in biblioteca.