domenica 24 novembre 2024


27/11/2022 10:46:16 - Manduria - Cultura

La storia raccontata in due articoli giornalistici (pubblicati su “Il giornale d’Italia” e “Roma”) custoditi in biblioteca

«“Sono Archidamo, Archidamo III re di Sparta”— favellò».

La regale presentazione turbò non poco la giovane donna manduriana alla quale il re spartano si palesò nell’estate del 1955, come riportato da due articoli giornalistici rinvenuti in biblioteca, uno sul ‘Il Giornale d’Italia’, a firma di Domenico Zappone, l’altro sul quotidiano napoletano ‘Roma’, a firma di Mario D’Amico.

Le fonti di storia antica rivelano che Archidamo, re di Sparta, arrivò a Manduria per prestare aiuto ai  tarantini nella lotta contro i lucani e i messapi, dai quali venne colpito a morte il 3 agosto del 338 a.C.

Ebbene, nell’articolo di Domenico Zappone (salvo diversa indicazione, le citazioni riportate sono tratte da tale fonte) leggiamo che la signora Vita M., all’epoca dei fatti ventisettenne, di Sparta e del suo re, non conosceva nulla, arrivando persino ad attribuire il turbamento seguito alla prima sconvolgente visione notturna (perché di questo si tratta) alla gran quantità di caroselle che aveva mangiato a cena la sera precedente, ripromettendosi di «neanche toccarle più prima di andare a letto».  Naturalmente, «appena fece chiaro, la portentosa novella col canto dei galli fece il giro del paese in men che non scriva».

In realtà, dopo la prima esperienza allucinatoria, quando «improvvisamente, dal vano della porta che dalla stanza da letto immette nella sala, vide avanzare verso di lei, come incalzata dal vento, una fitta nebbia rossastra o una fumata che fosse, la quale invadeva la stanza fino al soffitto, poi, allucinante e terribile, ne balzò fuori un guerriero antico armato di tutto punto, rivestito di ferro da capo al piè», presentandosi come Malaffa, il fratello di re Archidamo, la ‘frequentazione’ di Vita con il nobile spartano continuò per un po’, a prescindere dalle caroselle.

Infatti, la notte seguente la visione di Malaffa (del quale le fonti storiche ignorano l’esistenza!) si ripropose nelle stesse modalità della notte precedente. Dopo aver invocato con fede «i santi del cielo nonché le anime purganti con San Pietro in Bevagna, famosissimo taumaturgo della zona» ed essersi segnata ripetutamente, «domani se ne parlerà» disse Vita. Così, «pensando che non si trattasse d’altro che del diavolo in persona, o, Dio liberi, della cosiddetta tentazione, purificò la casa spargendo acqua lustrale in ogni angolo e recitando avemarie fino a sganasciarsi, e, tuttavia, incredibile a dirsi, appena a letto, invece di un guerriero ne vide due».

Il secondo guerriero, indossava un’armatura di ferro lavorata a sbalzo, armato di tutto punto, con l’elmo in testa e con una croce d’oro sul petto. La descrizione fisica del re spartano è riportata dettagliatamente, sempre attraverso le parole della signora Vita, nell’articolo di Mario D’Amico: « (…) indossa una lunga veste, una barba bionda gli cade sul petto e dimostra apparentemente una cinquantina d’anni. Sulla testa ha un turbante alla foggia turca ed una collana a grossissime maglie, con al centro un enorme medaglione che brilla di luce vivissima, gli pende dal collo».

«Sono Archidamo III, re di Sparta» favellò; «ora fai attenzione e non tremare. Devi sapere che a Manduria ci sono infiniti tesori, tra cui quello mio personale che si trova in questo punto [il Fonte Pliniano] (…) Tu devi soltanto guidare quelli che scaveranno, che debbono obbedirti. Poi ti daranno una terza parte di quanto si troverà e tu la darai ai poveri. Intesi?». In realtà, del favoloso tesoro d’Archidamo si ha notizia fin dall’antichità, da quando si diceva che i soldati messapici, dopo la vittoria sui tarentini avevano offerto agli dèi mandorle d’oro, appendendole sull’albero che sorge presso il lucernario del famosissimo Fonte Pliniano.

Dopo questa rivelazione, Archidamo e Vita divennero buoni amici e il re spartano le appariva all’improvviso, senza più alcun cerimoniale: «Provo un dolore alla nuca» spiega Vita «sento la testa che mi gira, ohi mamma, ohi ma’, e lo vedo».

Era sempre Archidamo a raccontarle dei tesori, della chioccia coi pulcini d’oro sottratta dai messapi ai tarentini e guardata a vista, notte e giorno, da un’invisibile cerva dalle corna d’oro; delle monete lasciate dai soldati di Annibale quando vennero al Fonte per far provvista di acqua e tanto altro. Vita ascoltava, ascoltava, finché una notte il sovrano spartano non le ordinò di recarsi là dove gli operai della Soprintendenza alle Antichità lavoravano intorno alle mura messapiche. «Vai a dire che si spingano più a Est da S. Antonio perché troveranno tombe piene di armi spartane», ordinò il sovrano alla donna ignara perfino degli scavi in corso. Vita naturalmente obbedì, si presentò al direttore del cantiere e poi indicò agli operai il punto della zona dove scavare: furono rinvenuti due scheletri, tre anelli, un’armilla di fattura greca e alcuni vasetti di coccio.

La notizia del ritrovamento è riportata anche nell’articolo di Mario D’Amico. Vita affermava di conoscere l’identità dei due scheletri: due schiavi della regina (moglie di Archidamo, la quale passò poi a nozze col fratello Malaffa), padre e figlio, i quali avrebbero nascosto il tesoro, finendo per essere uccisi perché non vollero rivelare il luogo dove il tesoro era stato sotterrato. A riprova della veridicità di quanto sostenuto, Vita sottolineava che gli scheletri si presentavano con tre anelli alle dita.

«Però dei tre anelli trovati, uno me lo dovete dare: così ha detto Archidamo» diceva la donna ai responsabili dello scavo, i quali ritenevano trattarsi di anelli insignificanti, anelli di ferro e di rame. «No, che son d’oro» urlava qualche volta la donna. «Sì, che son di ferro arrugginito» ribattevano gli altri. La notizia del ritrovamento fu ripresa dal signor Brandamura, conosciuto in paese come don Ciccillo, il quale ne scrisse sui giornali locali, attribuendo il merito dei preziosi rinvenimenti alle rare qualità di radioestesista della donna, la quale prese a recarsi quotidianamente nel cantiere con amiche e marito al seguito a suggerire, sorvegliare e dirigere.

A questo punto la Soprintendenza: «E dunque il merito degli scavi e delle scoperte che man mano si vanno facendo non è più nostro, ma di una illetterata e visionaria donnetta?». La decisione di allontanare Vita, la confidente di Archidamo III, fu unanime e categorica.

La delusione di Vita trova sfogo in parole di sfida e di diffida: «Sono stata scacciata, e va bene: ma mi richiameranno. Ed allora non ci andrò neanche coi carabinieri (…) Stanotte è venuto un’altra volta e sai che m’ha detto? M’ha detto che non troveranno più nulla, che la città è per sempre scomparsa…».

Infine, le fonti storiche ignorano un altro particolare rivelato da Vita: Malaffa, oltre a presentarle il fratello Archidamo, le confessa di essere stato lui a ucciderlo e non i manduriani.

Affermazione non di poco conto, se si considerano le gesta eroiche riconosciute ai messapi proprio relativamente alla battaglia che risultò fatale al re spartano. Così il Tarentini in ‘Cenni storici di Manduria antica…’: «Venne il giorno decisivo, fu dalle trombe annunziata la battaglia campale sotto le mura di Manduria. I tarantini e i loro alleati furono i primi a slanciarsi contro i messapi, ma restarono vinti, ed Archidamo che dirigeva la pugna viene trascinato dagli eserciti che si confusero lottando petto a petto e restò ucciso presso le mura. Sgomenti i nemici si affidano ai piedi fuggendo a precipizio» (p. 74). E ancora: «Gli sconfitti Spartani, scorati al massimo per la rotta toccatagli e viemmaggiormente per la perdita del loro re, fecero le più grandi istanze, unitamente ai tarantini, presso i mandriani pel cadavere di Archidamo; ma questi non lo cedettero neppure in vista di tant’oro: il trofeo principale della vittoria non fu ceduto, non venduto ma, suppongo, amorevolmente sepolto» (p. 76).

 











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