domenica 24 novembre 2024


08/03/2023 11:04:30 - Manduria - Cultura

Se vogliamo dare all’8 Marzo una valenza non consumistica, facciamone l’occasione per una riflessione su questa identità, labile e mutevole, di cui noi stesse stentiamo ancora a definire i contorni. Lo facciamo confrontandoci con una donna scrittrice, Michela Murgia

“Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna”, di Michela Murgia, Einaudi, 2011.

Da sempre la donna si conforma, nei suoi comportamenti, nel suo aspetto, nei suoi sentimenti persino, ai modelli che l’uomo, di epoca in epoca, pensa per lei. Anche nei dizionari risulta difficile dare una definizione della donna se non rapportandola all’uomo.

Se vogliamo dare all’8 Marzo una valenza non consumistica, facciamone l’occasione per una riflessione su questa identità, labile e mutevole, di cui noi stesse stentiamo ancora a definire i contorni. Lo facciamo confrontandoci con una donna scrittrice, Michela Murgia, che nel suo libro “Ave Mary”mette nero su bianco il disagio che lei, cattolica praticante, ha provato e prova in quanto donna, all’interno della Chiesa. La Bibbia, i Padri della Chiesa, i teologi, i Papi, tutti le sembrano condurre lo stesso discorso discriminatorio nei confronti della donna, riverberato nelle sue personali esperienze di militante nelle organizzazioni cattoliche. Pesa su tutte le donne l’anatema del peccato di Eva, che ha condannato l’umanità intera alla sofferenza e alla morte fisica, che  di quel peccato è conseguenza. Cristo, immolandosi, ha liberato uomini e donne dalla macchia del peccato originario, ma la cacciata dall’Eden, vale a dire ciò che tali ci ha reso caricandoci del fardello della nostra umanità, per molti secoli di storia cristiana, non si è mai cessato di indicare come responsabilità della nostra progenitrice. Tralasciando Paolo di Tarso, la Murgia cita Tertulliano: “Ogni donna dovrebbe camminare come Eva nel lutto e nella penitenza, di modo che… possa espiare pienamente ciò che le deriva da Eva, l’ignominia del primo peccato…”. Non diversamente da lui si esprimono, tra gli altri, San Giustino o Sant’Ireneo nei primi secoli della cristianità; una tradizione di pensiero che si è tramandata sino quasi ai giorni nostri. Ed oggi? Come viene connotata la donna nella attuale visione cristiana del mondo, quale troviamo codificata nelle sintesi dottrinarie e trasmessa nella predicazione quotidiana dei parroci? Sotto la spinta della modernità, anche teologi e Papi si sono prodotti in uno sforzo di elaborazione teorica, volto a riconoscere ed esaltare la dignità della donna. Ma, ancora una volta, questa dignità viene definita nel rapporto con l’uomo, nel suo essere “per natura”diversa da lui,  in una “naturale disposizione spontanea della personalità femminile (Giovanni Paolo II, “Mulieris Dignitatem”), che la vede vocata alla cura e all’accudimento. Vocazione ineludibile, pena la perdita della sua identità, che potrà essere destinata o a marito e figli, nel matrimonio, o all’umanità intera, in un ordine religioso: moglie e madre o vergine consacrata, altra strada non c’è. Tutte le donne santificate dagli ultimi Pontefici sono suore, ad eccezione di una: Gianna Beretta, madre di quattro figli, che si lasciò morire di cancro per non interrompere l’ultima gravidanza.

E Maria in tutto questo? Ebbene nemmeno Maria ha potuto riscattare con la sua vita e con la sua morte la piena libertà e dignità delle donne, poiché la Chiesa ne ha fatto un’icona inarrivabile, talmente poco umana, che in nessun modo potrà fungere da modello per loro. La Chiesa ha tradito Maria: sostanzialmente è questa la conclusione a cui giunge l’Autrice; di Lei ha esaltato la subordinazione, l’obbedienza, l’umiltà, il calvario iniziato con la nascita di un Figlio che sapeva destinato al martirio. L’ha raffigurata prevalentemente come “mater dolorosa” e l’ha offerta alle donne solo come esempio di totale ed estrema abnegazione, immedesimata e cancellata nel destino del Figlio. Maria non ha un corpo, nulla sappiamo del suo aspetto fisico, della sua vita, della sua morte. L’immagine di Lei distesa sul giaciglio dopo le fatiche del  parto dopo i primi secoli scompaiono dalla raffigurazioni della Natività; eternamente giovane, come il suo corpo abbia lasciato questo mondo non è chiaro. Sempre più disincarnata Maria la troviamo oggi, riprodotta in miliardi di materiali diversi sotto forma di Immacolata Concezione, quasi priva di corpo, senza il Bambino, icona “celestiale”nella quale nessuna donna potrà mai immedesimarsi.

Eppure l’immagine di Maria che si ricava dalle scarne informazioni che il Vangelo ne dà, se proviamo a collocarla nel suo tempo e nel suo ambiente, è quella di una ragazza coraggiosa ed autonoma, che, rispondendo all’annunzio, opera una scelta ‘contro’: contro la famiglia, contro la tradizione, contro l’autorità, contro tutto ciò che ci si aspetta da lei; la Chiesa, al contrario, ha educato donne obbedienti e sottomesse, che non sanno dire di no.

Non c’è riscatto né uguaglianza per la donna all’interno della Chiesa cattolica, nonostante Papa Luciani e il suo “Dio è anche madre”, nonostante gli sforzi di tante teologhe. Il fatto è che questa condizione di minorità è nella storia e nelle società umane tutte ed anche di questo la Murgia attribuisce la responsabilità alla Chiesa, ritenendo che essa “abbia ancora un ruolo fondamentale nel fornire chiavi di lettura al nostro mondo e continua a condizionare il nostro stare insieme di uomini e donne”. E qui si sbaglia, perché la donna è fin dalla notte dei tempi preda del potere dell’uomo e le varie religioni, la cattolica come le altre, non hanno fatto che codificare, in forme via via diverse, “al pari di filosofia e scienza”, questo potere. 

‘Ave Mary. E la chiesa inventò la donna’ di Michela Murgia è disponibile in biblioteca.











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