Focalizziamo l’attenzione su un «una pregevole architettura contadina spontanea»: ‘lu truddu’ (= il trullo)
Si celebra oggi la ‘Giornata Nazionale del Paesaggio’, istituita con Decreto ministeriale 7 ottobre 2016 n. 457, avente come obiettivo la promozione della «cultura del paesaggio in tutte le sue forme e a sensibilizzare i cittadini sui temi ad essa legati, attraverso specifiche attività da compiersi sull’intero territorio nazionale mediante il concorso e la collaborazione delle Amministrazioni e delle istituzioni pubbliche e private”.
Confidando che ciò accada in maniera sempre più incisiva anche nel nostro territorio, si è voluto, in tale occasione, focalizzare l’attenzione su un «una pregevole architettura contadina spontanea» (B. Tragni, ‘Gazzetta del Mezzogiorno’ 08-08-2004): ‘lu truddu’ ( = il trullo).
Si tratta di una particolarissima costruzione presente nel paesaggio rurale non solo manduriano, che si presta a considerazioni di varia natura: antropologica, socio-economica, architettonica, storico-culturale.
Dal punto di vista antropologico l’uomo ha, da sempre, cercato conferma di sé nel paesaggio, e ogni sua realizzazione, oltre ad avere uno scopo funzionale alle proprie esigenze vitali, è anche una testimonianza, un bisogno irrefrenabile e inconscio di affermare la propria presenza sulla Terra. Nel caso della cultura pre-industriale di tipo arcaico, vi è, in aggiunta, un rispettoso e vincolante legame con la natura.
Difficile risalire alla data di costruzione dei primi ‘tròdduri’. I trulli che possiamo ammirare nelle nostre campagne verosimilmente risalgono alla metà del XIX secolo, quando si ebbe la redistribuzione delle terre sottratte al patrimonio ecclesiastico dai governi napoleonidi; i contadini, non più braccianti retribuiti dai proprietari terrieri, ma con un pezzetto di terra in affitto, a mezzadria o addirittura in proprietà, costruirono queste strutture come dimore estive, luoghi dove trasferirsi con tutta la famiglia, per continuare a lavorare fino a tarda sera, essendo maggiori le ore di luce. Ed ecco affiorare prepotentemente l’aspetto socio-economico, perché la villeggiatura della famiglia in questi luoghi non era sinonimo di vacanza. L’operosità contadina non contemplava il riposo, ma una differente ‘modalità’ lavorativa, legata alle varie fasi inerenti la raccolta dei fichi, il loro essiccamento e la loro conservazione (la permanenza dell’intera famiglia nei mesi estivi all’interno del ‘truddu’ veniva indicata con l’espressione ‘fori alli fichi’ ). Nello stesso periodo si battevano anche i legumi. Non vi era posto migliore, per simili operazioni, che il tetto del trullo, sfruttando appieno le calde temperature estive.
La struttura architettonica del ‘trullo’ è concepita secondo lo schema a ‘tholos’, che consiste in una sovrapposizione di anelli concentrici di pietre disposti a secco (ossia senza aggiunta di malta) progressivamente aggettanti all’interno in modo da formare un cono, chiuso in chiave da una lastra di pietra detta ‘chianca’.
I ‘tròdduri’ presentano una tecnica costruttiva tutt’altro che semplice.
Le operazioni di costruzione prevedevano lo sterramento fino al sasso, lo spianamento e il livellamento dell’area prescelta. Si segnava a terra una prima circonferenza dal diametro voluto, oppure (più spesso) un quadrato; successivamente si misurava un perimetro esterno di circa tre metri più lungo di quello di prima. La costruzione si cominciava dall’interno, in verticale, sovrapponendo pietre di varia forma fino all’altezza di circa un metro; a questo punto cominciava il restringimento di alcuni centimetri (due dita a giro), ponendo le pietre superiori sul punto di incastro delle due sottostanti, e così fino alla chiusura del cono. Contemporaneamente, si procedeva alla costruzione della parete esterna, riempiendo l’intercapedine con pietrisco e con le pietre scartate (il notevole spessore era garanzia di un ambiente fresco anche nei mesi più caldi). Nella parete esterna venivano inoltre ricavate, da parti opposte, due scalette che servivano agli artigiani per poter procedere nella costruzione ed al proprietario per la manutenzione futura del trullo. L’ingresso nel trullo era permesso da un’apertura limitata da blocchi di tufo squadrati (due elementi obliqui e una chiave di volta; due blocchi obliqui direttamente a contatto; due blocchi verticali e un architrave orizzontale) oppure da un arco a tutto sesto, ottenuto con molti conci di tufo appositamente modellati. Un aspetto degno di nota riguarda la collocazione dell’apertura di ingresso: essa è rivolta sempre verso est o verso ovest, comunque al riparo dai temibili venti di tramontana e scirocco, tipici della zona. (Cfr. ‘Tròdduri, pajaruni, casoddi – Testimonianze di architettura rurale nel terriorio’, a cura di D. Nardone, in ‘Quaderno del Ventennale 1972-1992’ , Liceo Scientifico Statale “G. Galilei” – Manduria).
Un’ulteriore qualità, affatto trascurabile, di queste costruzioni è la loro ecosostenibilità ‘antelitteram’. È innegabile che l’impatto ambientale di un trullo è alquanto basso, perché assolutamente integrato nel territorio circostante e naturalmente inserito nell’insieme del paesaggio rurale, con materiali e tecniche da fare invidia alla moderna bioarchitettura.
Alle molteplici ipotesi riguardanti l’etimo di ‘truddu’, riportate da A. Dimitri (‘Trulli e muri a secco’ tra Manduria, Maruggio e Torricella, Provveduto 2002), due risultano più aderenti al contesto agrario manduriano: quella che possa derivare da ‘pitruddu’ / ‘pitrodduri’ o ‘pitruddi’ ( = sassolino /sassolini) da cui ‘truddu’ / ‘tròdduri’. L’altra ipotesi ritenuta verosimile dall’autore è che ‘truddu’ possa derivare dal termine dialettale non più in uso ‘truddari’, nel significato di scuotere con il setaccio a grandi fori legumi oppure olive per separarle dalle impurità, che finivano per ammucchiarsi al suolo, ricordando la forma del trullo.
Il ‘trullo’ talvolta era realizzato dagli stessi contadini, più spesso da operai specializzati chiamati ‘paritari’, con le pietre emerse durante il dissodamento dei campi stessi, materiale con cui sono costruiti anche i numerosissimi muretti a secco presenti sul territorio. Negli anni ’20 del Novecento, Tommaso Fiore nelle pagine indirizzate a Piero Gobetti scriveva, a proposito dei muretti a secco che solo un popolo di formiche aveva potuto realizzare tali opere. Le stesse ‘formichine’ le troviamo nel racconto della vita contadina fatto da Emilio Greco in ‘No è ccieddi no’ … nnu illanu èti! (Barbieri 2011): «Intanto i bambini sono tornati a svolgere il compito che stavano facendo: un bambino riempie il suo canestro con le pietre e, quando è pieno, se lo carica in spalla aiutato dall’altro bambino; lo va a vuotare e torna indietro. Intanto che è andato e tornato l’altro bambino ha riempito il suo canestro ed è giusto in tempo per farsi aiutare a caricarselo sulle spalle e andare a svuotarlo. Continuano sempre così, ognuno si riempie il suo canestro e lo svuota, solo per caricarselo sulle spalle si fa aiutare dall’altro».
Protagonisti di tanta vita e fatica che fu, i ‘truddi’ si ergono qua e là, ormai vuote pareti inascoltate, nelle campagne manduriane. A volte rimasti miracolosamente integri nella loro semplicità di pietra, a volte sventrati dall’incuria dell’uomo o fagocitati da inesorabile legge di natura, i ‘truddi’ rimangono silenziosi testimoni di una civiltà, quella contadina, che ha permeato tutto di sé, finanche le pietre, appunto. Non è semplicemente antropizzazione, ma un compenetrarsi di universi sensibili.
Testimonial di tutto rispetto per questa giornata, il ‘trullo’ richiederà attenzione e cure in futuro per poter continuare a raccontare storie antiche con voci nuove, e tenere viva una memoria storica gravida di valori, cultura e tradizioni.
Il trullo in foto insiste sul territorio di Manduria, alla contrada ‘Monache’, censito in catasto al foglio 112, part.lla 96.
Tutti i testi citati sono disponibili in biblioteca.