Juri era profondamente turbato: continuava a comunicare a gesti e, in aula, osservava con speranza la porta in fondo al corridoio, oltre la quale talvolta udiva le voci dei visitatori. Il suo profitto scolastico era pessimo: non prestava attenzione alle lezioni e non socializzava con i compagni. Avrebbe potuto parlare, aveva tanto da dire, ma si rifiutava di aprirsi a un mondo che non riusciva ad accettare.
Il suo sguardo inespressivo non conferiva bellezza a quei grandi occhi neri che osservavano il mondo in chiaroscuro. La sua chioma lucente e fluente nascondeva in parte la stretta fronte del fanciullo. Quella bocca serrata e le armoniose labbra, unite al nasino alla francese, completavano la fisionomia del volto pallido di Juri che, chiuso nel suo silenzio, comunicava a gesti con il ristretto mondo attorno a lui. Vani erano i tentativi di logopedisti e insegnanti di stimolare la parola del fanciullo, seduto all’ultimo banco dell’aula dalle pareti ingrigite e scalcinate. Juri, in quella numerosa classe, si smarriva nei tristi ricordi e solo una flebile luce alimentava la speranza che, un giorno, la porta in fondo al lungo corridoio si spalancasse.
Le lente e noiose giornate trascorrevano avvolte nell’oscurità di quel gelido ambiente, dove aleggiava incontrastata la mestizia e nulla riusciva ad alimentare la vivacità dei bambini ospiti della squallida e decadente struttura costruita dal regime a Njasviž. Dopo le attività scolastiche, mentre i suoi compagni giocavano all’aperto, Juri trascorreva i pomeriggi dietro i vetri di una finestra che si affacciava su una pineta ai margini della città avvolta dalla neve. Il fanciullo accostava la fronte al freddo e umido cristallo, sorreggendosi il mento con la mano destra, per osservare i ragazzi infreddoliti giocare o correre; di tanto in tanto, scrutava l’ignoto che si apriva davanti a lui.
Spesso, nella sua mente ricorreva un’immagine: ispirato da quella visione, il fanciullo disegnava sul vetro appannato un uomo e una donna che si tenevano per mano. Pian piano, però, gocce di vapore acqueo scivolavano sul vetro, deformando quelle figure fino a farle scomparire dalla superficie velata. E in quegli istanti, Juri affogava nella sua solitudine.
La primavera era alle porte e un pallido sole si affacciava sulla città, dove la neve, sciogliendosi, scorreva in rivoli per le strade. Nelle vie, la gente, come uscita dal letargo, affollava i viali e i caffè all’aperto. Sugli alberi rinverditi, gli uccelli migratori di ritorno dall’Africa cinguettavano, annunciando l’inizio della mite stagione. Qua e là, nei parchi vicini, gioiosi bambini giocavano, sorvegliati a vista da coppie di arzilli nonni seduti sulle panchine.
Juri, dalla finestra, osservava la città rischiarata, anche se, di tanto in tanto, qualche nuvola oscurava il sole. Adombrata era anche la mente del fanciullo, che spesso, nel suo solitario viaggio interiore, ripercorreva mestamente il suo recente passato. Rivedeva le immagini di quel tragico giorno in cui i suoi genitori erano apparsi per l’ultima volta nella Lada uscita di strada e rotolata giù per un dirupo. Miracolosamente sopravvissuto, Juri si chiedeva perché il destino fosse stato clemente solo con lui.
Gli mancavano i gesti amorevoli e protettivi dei genitori e le loro parole confortanti. Nel suo intimo ripeteva spesso le parole della madre: «Quando ancora eri in grembo, noi ti immaginavamo così come sei: bello, ubbidiente, coraggioso, intraprendente… Sei il figlio che ogni genitore desidererebbe avere. Per noi sei il bambino più bello del mondo».
Una lacrima sgorgava dall’occhio e solcava il viso provato di Juri ogni volta che nella sua mente riascoltava quell’elogio.
Juri era profondamente turbato: continuava a comunicare a gesti e, in aula, osservava con speranza la porta in fondo al corridoio, oltre la quale talvolta udiva le voci dei visitatori. Il suo profitto scolastico era pessimo: non prestava attenzione alle lezioni e non socializzava con i compagni. Avrebbe potuto parlare, aveva tanto da dire, ma si rifiutava di aprirsi a un mondo che non riusciva ad accettare.
Un giorno, mentre era seduto vicino alla finestra, accadde qualcosa di straordinario. Un taxi si fermò di fronte alla struttura e una coppia elegante scese. Ansiosi ma decisi, i due entrarono nell’orfanatrofio, dove la direttrice li accolse e li accompagnò nella sala d’attesa. Juri, col cuore che batteva forte, percepì un’energia nuova nell’aria.
Poco dopo, la direttrice si fermò davanti alla porta dell’aula e sussurrò al fanciullo di seguirla. Insieme attraversarono il corridoio e giunsero nella sala d’attesa. La coppia si alzò e, con emozione negli occhi, si avvicinò a lui. La donna, inginocchiandosi, gli disse: «Ciao Juri, siamo venuti per te. Siamo i tuoi nuovi genitori, se vorrai accettarci».
Juri li guardò, e d’improvviso riaffiorarono i ricordi dei suoi genitori.
Sussurrò: «Mamma, papà…» e poi, con più forza, «Mamma! Papà!».
Si gettò tra le braccia della donna, piangendo apertamente.
La primavera avanzava lentamente, portando con sé una nuova vita per Juri. Mano nella mano con i suoi nuovi genitori, uscì dall’orfanatrofio. La porta che aveva tanto osservato si era finalmente aperta, rivelandogli un futuro pieno di speranza.
Walter Pasanisi