giovedì 28 novembre 2024


17/08/2014 08:00:38 - Manduria - Attualità

 Una morte assurda per la quale, a distanza di dieci anni esatti, si attende ancora che la Giustizia completi il proprio corso e si giunga ad una sentenza che faccia luce sulle responsabilità

Il 12 agosto del 2004 Demba Ningue, un ragazzo senegalese di 14 anni, trovò la morte, per annegamento, nella struttura abbandonata che fu realizzata dall’Arneo nei pressi della sorgente del fiume Chidro e che sarebbe dovuta servire per attingere l’acqua dolce dal rigagnolo di San Pietro in Bevagna, per poi pomparla nelle reti irrigue del consorzio. Struttura mai entrata in funzione, che, nel corso degli anni, è stata letteralmente sventrata da ladri e vandali.

A Demba, che vediamo nella foto, fu fatale un tuffo nell’acqua gelata del Chidro, compiuto da un ponticello incustodito della struttura.

«Abbiamo vissuto a Manduria per due anni: dal 1995 al 1997» racconta Momar, il padre di Demba. «Poi ci siamo trasferiti a Bergamo, ma a Manduria sono rimasti alcuni miei fratelli. Durante la stagione estiva scendiamo sempre in Puglia per trascorrere qualche giorno insieme ai parenti più stretti».

Nell’estate del 2004 la tragedia che costò la vita a Demba.

«Mio figlio, insieme ad altri coetanei, si recò nell’area dell’impianto che si trova nei pressi della sorgente del Chidro, in cui vi era un ponticello incustodito» ricorda Momar. «Avrebbero voluto cimentarsi in una gara di nuoto, tuffandosi nel fiume proprio dal ponticello, per poi raggiungere, dopo poche decine di metri, la foce. Immergendosi nell’acqua gelata che sgorga dalla sorgente, Demba, probabilmente, fu colto da un crampo e non riuscì a restare a galla. Chiese aiuto agli amici, che inizialmente credettero si trattasse di uno scherzo. Quando presero consapevolezza di ciò che stava accadendo, tirarono fuori mio figlio dall’acqua e gli praticarono il massaggio cardiaco, ma ogni tentativo di rianimarlo fu vano».

Una tragedia sicuramente evitabile se il rudere di quell’originario impianto di pompaggio fosse stato messo in sicurezza.

«Abbiamo chiesto giustizia allo Stato italiano» ci confida amaramente Momar, che, attraverso i legali Di Lauro e De Sario, ha citato in causa l’Arneo. «Se fosse stato impedito l’accesso a ciò che resta della struttura, mio figlio sarebbe sicuramente ancora vivo. Ma a distanza di 10 anni attendiamo ancora il pronunciamento dei giudici».

Un’attesa troppo lunga e inaccettabile, anche per la Giustizia italiana, i cui tempi sono notoriamente molto compassati.











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