L’autore manduriano: «Mi definisco uno scrittore di genere»
L’ultimo libro di Omar Di Monopoli “Ferro e fuoco” presentato anche la libreria Iman di Massacra.
Durante la serata, è stato ricordato come l’autore manduriano abbia vinto il premio “Opera Prima Edoardo Kihlgren 2008” con il romanzo “Uomini e Cani”, al quale è poi seguita la seconda opera della trilogia “Ferro e Fuoco”.
Nel portale “SportMagazine.it”, la collega Mariella Orlando ha descritto l’incontro con l’autore manduriano.
“Ferro e Fuoco” racconta una scia di violenza che investe il Gargano. Un esercito di nuovi schiavi combatte per sopravvivere in sterminatepiantagioni di pomodori. Il giovane Andrej e la bella Mariehla, scelta come amante da un boss, sono solo due pedine di un gioco atroce.
Su tutti regna il Pellicano, signore incontrastato di questa terra. Poi arriva il fuoco, che devasta ogni cosa. Ma intanto qualcuno è riuscito a fuggire: Kazim, accusato ingiustamente dell’omicidio di Mariehla, prende un ostaggio e scappa verso il nord, mentre quattro cavalieri dell’apocalisse gli stanno alle calcagna. Sarà la resa dei conti.
«Mi definisco uno scrittore di genere. Quella di genere è una scrittura a tema che segue degli stilemi tipici dell’argomento che tratta, dei clichet la mia passione per il genere western mi ha portato a scrivere della realtà in cui vivo in maniera cruda, quasi crudele alla maniera western».
Quella di Di Monopoli non vuole essere una denuncia sociale di tipo giornalistico, bensì una fotografia della sua terra realizzata con gli occhi di un grafico fumettista, dunque contaminata dalla fantasia. Nel presentare “Ferro e Fuoco”, infatti, lo scrittore dichiara: «Lascio alle Pro Loco le descrizioni da favola di luoghi incantevoli dal fascino esotico, essendo innamorato della mia terra ne descrivo le forti contraddizioni che la contraddistinguono; in molte zone della Puglia - spiega - il computer e la “mascara” convivono, il progresso affianca la tradizione dal sapore ancestrale».
Peculiarità dello stile di Di Monopoli è l’utilizzo del dialetto come strumento descrittivo di tutto rispetto, il che lo eleva a lingua parallela all’italiano ma dalla maggiore efficacia espressiva. inoltre nelle vicende di entrambe i romanzi non è presente un colpevole, una distinzione netta tra il buono ed il cattivo.
«Nelle mie storie non c’è un colpevole, ma diversi gradi di colpevolezza. Lascio al lettore la scelta del cattivo».
Insomma siamo di fronte ad un mix esplosivo di verismo verghiano e patos sergioleonesco, di tradizione contadina e asprezza tipica dei cowboys.