domenica 24 novembre 2024


20/07/2023 16:09:33 - Manduria - Cultura

Fu forse per dare dimostrazione al mondo della sua ricchezza che Mansa Musa, un giovane uomo da tutte le fonti descritto come di bell’aspetto e di modi raffinati, intraprese il suo pellegrinaggio con un corteo composto, secondo alcune stime, da 60.000 persone e 12.000 dromedari

Nel 1324 il Sultano del Mali, Mansa Musa, compì quello che per ogni buon fedele Musulmano è il compimento del suo percorso di fede: il pellegrinaggio alla città santa della Mecca. Questo particolare pellegrinaggio, però, era destinato a divenire leggendario in tre continenti e per l’importanza del pellegrino e per le dimensioni del corteo che lo accompagnava e per la quantità d’oro profuso lungo tutto il suo percorso, ad ogni tappa. Tanto nella tradizione orale quanto nelle cronache scritte, contemporanee o immediatamente successive, tutte in lingua araba, il lungo viaggio che portò l’imperatore e il suo seguito ad attraversare il Sahara e poi la penisola araba sino alla Mecca si arricchisce di particolari favolosi, come la creazione di una piscina nel deserto per la sua amata moglie, che ne fanno quasi un episodio da  “Mille e una notte”. Ma il pellegrinaggio è un evento storico, reale e documentato, e tocca a Marco Aime ricostruirlo nel suo “La carovana del Sultano” distinguendo, attraverso l’acquisizione di tutte le fonti disponibili  ed  una serrata comparazione tra di esse, tra realtà ed immaginazione.

L’Africa subsahariana, in quel periodo storico, che secondo la partizione temporale eurocentrica chiamiamo Medioevo, vide il sorgere e prosperare di veri e propri imperi, grazie alla posizione geografica che ne faceva il crocevia per il transito di merci che viaggiavano da nord e sud e da est ad ovest, lungo rotte carovaniere che animavano un’economia che, a buon diritto, possiamo definire globalizzata. Si trattava di una rete commerciale prevalentemente in mano agli arabi, che traeva alimento anche  dalla diffusione della comune fede islamica in paesi e tra popoli pure tra loro molto diversi. Il Mali durante il regno di Mansa Musa era una potenza emergente, grazie anche ad una risorsa che sembrava possedere in quantità illimitata: l’oro, una merce sempre molto richiesta a sostegno delle economie  mercantili dell’epoca , soprattutto in Europa, in un periodo in cui, a causa dell’esaurimento delle miniere del Caucaso e dell’Ungheria, l’oro scarseggiava.

Fu forse per dare dimostrazione al mondo della sua ricchezza che Mansa Musa, un giovane uomo da tutte le fonti descritto come di bell’aspetto e di modi raffinati, intraprese il suo pellegrinaggio con un corteo composto, secondo alcune stime, da 60.000 persone e 12.000 dromedari che, oltre al fabbisogno quotidiano di tanta gente durante mesi e mesi di cammino, trasportavano oltre 12 tonnellate d’oro? È certo che non fu solo la motivazione religiosa quella che spinse il  Sultano del Mali a mettersi in viaggio per la Mecca con così cospicuo seguito. Per lui, salito al trono in maniera non del tutto trasparente, accusato, nelle cronache orali, di azioni  peccaminose, il pellegrinaggio ebbe sicuramente anche un significato  politico e, diremmo oggi, d’immagine, tanto all’interno del regno quanto all’esterno; nei confronti di coloro che, in patria, mettevano in dubbio il suo diritto a governare o nei confronti, ad esempio, del Sultano del Cairo, se è vero che Mansa Musa rifiutò di prosternarsi dinanzi a lui e proprio in quella città,  snodo dei traffici tra il continente africano e il Mediterraneo, diede la massima dimostrazione della sua ricchezza,elargendo  la maggior parte dei suoi munifici doni e acquistando  tutto ciò che era in vendita. Tanto oro maliano fu riversato in quei giorni sul mercato cairota da provocare, nell’immediato futuro, una svalutazione del prezioso metallo e quasi una crisi finanziaria.

Sta di fatto che, dopo alcuni mesi di permanenza al Cairo, i Maliani proseguirono per la Mecca aggregati al pellegrinaggio ufficiale del Sultano d’Egitto, dotati di scorta armata e fregiandosi del baldacchino che ne testimoniava il favore.

Se sul viaggio di andata le testimonianze sono numerose, poco sappiamo del viaggio di ritorno. Abbandonati dalla scorta cairota,  attaccati e rapinati da predoni nomadi, decimati dalle malattie e dalla sete, travolti da tempeste di sabbia, furono certamente in pochi a rientrare nella capitale, seguendo, pare, un diverso itinerario. Soprattutto, la prodigalità di Mansa Musa aveva svuotato le casse dello stato. Ma il pellegrinaggio in breve tempo si dimostrò un successo politico ed economico, avendo rinsaldato il potere centrale, rispetto ad una periferia in gran parte ancora tribale, ed alimentato la rete dei contatti commerciali con il resto del mondo islamico; per non parlare dello sviluppo culturale, legato alla diffusione dell’arabo come lingua scritta e delle scuole coraniche, voluta dal sovrano. Anche  l’Europa scoprì che a sud del Sahara esisteva un regno ricco e potente, tanto da raffigurarlo  nella cartografia più aggiornata.

Della vicenda terrena di Mansa Musa al ritorno dal pellegrinaggio le cronache non parlano: sappiamo solo che terminò la sua vita nel 1337, dieci anni dopo il suo ritorno dalla Mecca.

Del destino successivo del Mali, delle conseguenze della colonizzazione europea e delle sue attuali condizioni si fa cenno nell’ultimo capitolo del libro. Un libro che è un’opera scientifica, ma che, per la chiarezza e la scorrevolezza dell’ esposizione, si legge tutto d’un fiato, come un romanzo d’avventura.











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