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20/07/2024 17:31:31 - Manduria - Cultura

«Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura»

“Come d’aria” è il libro dalle tante domande e un’unica risposta, l’Amore. È un’autobiografia, affidata a una narrazione a filo continuo, nella quale ricordi e sentimenti sono perfettamente coesi dalla sensibilità e dall’eleganza dell’Autrice nello scrivere. “Come d’aria” è una giostra di parole sin dal titolo, nel quale l’apostrofo è una mannaia che divide in due il nome proprio Daria, nel quale è altresì contenuto un altro nome proprio, Ada, a sua volta acronimo di Ada-Daria-Alfredo: la famiglia di Daria. In realtà, il babbo Alfredo traspare qua e là nell’immensità emotiva del libro. Sono mamma Ada e sua figlia a fecondarsi reciprocamente, fino a partorire una sola essenza, eterea, d’aria: Daria, appunto, la quale emerge, preziosa, dal meccanismo impazzito di quella giostra.

È cosi che accade quando la “disabilità” di una figlia rivendica il diritto di parlare, pensare e amare attraverso la “normalità” di una madre malata. «Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura» (p. 15)

Quando Ada scopre di essere malata, raccontare diviene un’urgenza emotiva. «È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio» — recita la citazione di Rita Charon riportata nel Prologo.

Raccontare Daria, la sua nascita, la mancata diagnosi della sua grave disabilità, dal nome impronunciabile (oloprosencefalia), il senso di estraneità provato i primi tempi nei suoi confronti, la “Grande Fuga” di parenti e amici incapaci di condividere una situazione tanto complicata, le difficoltà quotidiane e i piccoli grandi successi. Lo fa con la naturalezza di una madre innamorata della propria “meravigliosa figlia imperfetta”, ma rivendicando al tempo stesso la scelta, prima che il diritto, all’aborto terapeutico, una scelta dolorosa ma che deve essere garantita. Lo sostiene l’Autrice, in una lettera che, «uscita d’impeto dal petto come un grido», invia a Corrado Augias e che viene pubblicata su Repubblica, sollevando questioni di elevato spessore sociale, e prima ancora umano.

Raccontare la propria malattia. «Perché mi sono ammalata di cancro? Forse avevo qualche colpa da espiare. (…) Riguarda te, la consegno alle tue piccole mani che accarezzano, alle gocce delle tue pupille, alle tue orecchie capaci di sentire anche un soffio, alle tue labbra costrette a custodire il segreto» (pp. 73-74), un peccato inconfessato, una macchia nera nella carriera di madre, e che perciò viene raccontato a denti stretti: «Avevo invocato l’intervento della malasorte, senza sapere che il bersaglio di quella sorte non potevi essere solo tu, ma saremmo state io e te, insieme, per tutta la vita» (p. 74).

La comunicazione verbale non fa parte del mondo di Daria, ma quella del corpo sì. «Il tuo corpo parlava, il mio corpo si sforzava di sentire quello che il tuo cercava di dirgli (…) in una simbiosi assoluta, insieme misteriosa  e carnale» (p. 29). La malattia di Ada non interrompe la comunicazione. Daria torna a casa da scuola con la testa infestata dai pidocchi, Ada con alcune chiazze senza capelli a causa della terapia: «Quale momento migliore per dirottare l’attenzione dalla mia testa alla tua? Ma certo! Devo avere più fiducia nella capacità che i nostri corpi hanno di comunicare, nel legame che ci unisce e che a volte trova sentieri misteriosi per manifestarsi» (p. 85). Il corpo come espressione massima di condivisione, «ogni comunicazione continua a passare attraverso il corpo, anche se malato. Anzi, oso dire in virtù del suo essere malato. (…) Io sono il mio corpo, che accumula segni, ferite, cicatrici. Corpo che è il mio sigillo, testo che parla di me» (p. 86

Raccontare infine la solitudine, quella che ogni disabilità porta con sé, inesorabilmente: «Avere un figlio invalido significa essere soli, definitivamente soli. Indietro non si torna. Uguale a prima non sarà più. E’ come se dentro di te si fosse accumulato il punteruolo delle palme che rosicchia la pianta dall’interno piano piano, la trasforma in un involucro pieno di segatura». Alla fine, la solitudine diventa una compagna di vita che tempra l’anima di chi la sperimenta:  «Quando è buio e tu urli e io non so più cosa fare per farti smettere. Quando sento e vedo il tuo soffrire e non riesco a trovare la cura. Cosa vuoi che sia, allora, una telefonata che non arriva. Un posto vuoto a tavola o nel letto. Posso sopportare tutto se sono capace di assistere al dolore della mia carne. Anche il morire, allora, mi sembra una possibilità» (pp. 75-76).

Ada è morta il 1aprile 2023, pochi giorni dopo la candidatura di “Come d’aria” nella dozzina del Premio Strega.











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