domenica 13 ottobre 2024


12/10/2024 09:06:57 - Manduria - Cultura

Si tratta di una fiaba figlia di una penna illustre, quella del manduriano Francesco Prudenzano (Manduria, 1823 – Napoli, 1909), stimato professore di Estetica e Letteratura iItaliana all’Università di Napoli, negli anni settanta del secolo XIX

Nel volume “Superstizioni pregiudizi e tradizioni in terra d’Otranto” di Giuseppe Gigli (Filo editore, 1988), a cura di Anna Merendino (riedizione dell’opera pubblicata per la prima volta nel 1893), sono riportate alcune fiabe popolari, «racconti straordinari di avventure, di imprese, di amori» che l’Autore ha raccolto personalmente «dalle labbra di alcune popolane», sforzandosi di trascriverli «quasi parola per parola». Così  è riportato nella pagina che introduce la terza parte del libro, quella appunto dedicata alle Fiabe popolari.

Si tratta di dieci fiabe, di cui cinque fanno parte della tradizione di Manduria, le rimanenti appartengono al popolo di Sava, di Brindisi, di Taranto, di Grottaglie, di Lecce.

L’autore precisa che era sua intenzione presentare la raccolta in dialetto, per dare il giusto peso all’aspetto filologico degli scritti, ma così non fece, nella convinzione che ciò sarebbe stato di ostacolo alla piena comprensione del testo fuori dall’area di provenienza dei racconti. Tale intuizione, se da una parte può aver compromesso l’aderenza all’universo folkloristico di appartenenza della fonte dialettale, dall’altra si rivela lungimirante, se si considera la versatilità con la quale i componimenti sono stati utilizzati successivamente. Alcuni di essi, infatti, sono stati tradotti in altre lingue, altri sono stati oggetto di adattamenti teatrali, tutti hanno avuto una diffusione certamente più ampia di quella locale.

Delle cinque fiabe «Del popolo di Manduria», ad esempio, “La sposa del re” è stata tradotta in inglese da Janet Ross nel suo “The Land of Manfred” e in francese da Paul Bourget in “Sensations d’Italie”, oltre ad essere inserita in una raccolta di fiabe da Onorato Roux, autore di numerose opere sulla letteratura fra fine ‘800 e inizi del ‘900. Le altre quattro fiabe della tradizione mandurina riportate sono “Le tre sorelle”, “La figliuola del re Fierarmata”, “I fratelli invidiosi”, “Zio Gilletto”. Fra i componimenti di altri paesi, vi è “Storia d’una sirena” della tradizione tarantina, che è stata inserita da Italo Calvino nelle “Fiabe Italiane”, nell’edizione Oscar Mondadori del 1993, con il titolo “La sposa sirena”, per divenire, infine, una rappresentazione teatrale, messa in scena da alcune compagnie, fra le quali  “Burambò” di Foggia, con il titolo “Una storia che non sta né in cielo né in terra ”,  “Crest” di Taranto con il titolo “Skiuma, la sposa sirena” e la “Compagnia Centrale Produzioni”, di Firenze con il titolo “La sposa sirena”.

In questo scritto, delle fiabe «del popolo di Manduria», ci piace soffermarci proprio su quella di “Zio Gilletto”. La curiosità letteraria? La fiaba è figlia di una penna illustre, quella del manduriano Francesco Prudenzano (Manduria, 1823 – Napoli, 1909), stimato professore di Estetica e letteratura italiana all’Università di Napoli, negli anni settanta del secolo XIX. La fiaba è compresa in un suo volume dal titolo “Novelle”.

Nella fiaba “Zio Gilletto” è Peregrina che narra, raccontando un episodio accadutole quando aveva circa quindici anni. In una sera di giugno alla “fuor’ora”, cioè quando «L’orologio della Porticella batteva le due ore di notte (…) le botteghe si chiudevano, e la gente, coperto il fuoco, andava a riposo», Peregrina fu mandata dal padre alla cantina per comprare un po’ di vino. Sulla via del ritorno, proprio sotto la torre dell’orologio, la fanciulla incontra Zio Gilletto, persona conosciuta ma in quel momento irriconoscibile, perché «indossava una giubba di bel verde, calzoni rossi affibbiati alle ginocchia, su calze bianchissime di seta, scarpe lustre, cravatta e corpetto bianco, e berretta di velluto rosso a galloni d’oro: teneva fra le mani un bastoncino elegante, con pomo di perla, e lucida ghiera. Avea la zazzera ben pettinata, guanti gialli alle mani, e oliva tutto di zimbetto». Il motivo di quello strano abbigliamento è presto svelato: «vado a godermi una festa qui vicino» spiegò lo strano personaggio, invitando Peregrina, riluttante, ad andare con lui: «Vedrai cose bellissime e nuove». Presto fatto. Sulle ali di un gigantesco papero, i due sorvolano «città, boschi, villaggi, mari, montagne» finché — ci dice Peregrina—«In un punto ch’era una gran valle, sentii fischiar la tempesta, e romoreggiar l’uragano; e vidi il guizzar dei fulmini, cui succedeva il rombo del tuono (…) ond’io, chiuse le palpebre, tremava a verga, compresa da somma paura (…)». Valse a poco la richiesta a Giletto di farla scendere. Questi, per tutta risposta, canticchiava «Sopr’acqua e sopra vento / Andiamo a Benevento; / Balliam colle Comari / Ne’ lor sacrati lari». Confortata da queste parole, Peregrina aprì gli occhi, volgendo lo sguardo tutt’attorno, «e parvemi vedere, in una vasta pianura, come de’ fuochi risplendenti fra gli alberi d’un bosco, in mezzo ai quali appariva una luce maggiore e più grande». Finalmente il bizzarro uccello si abbassa verso terra, «finché giunto in un delizioso giardino, pien di vaghissime piante fiorite, e d’alberi con bei frutti maturi, fermossi a piè di una fontana di bianchi marmi, a molti zampilli e a cascatelle, limpide e deliziose alla vista». Scesi, i due si trovarono di fronte a un bellissimo palazzo di cristallo, il cui splendore facevano fatica a sopportare gli occhi. All’improvviso, alcune fanciulle con passo leggero «che parean non poggiassero a terra»  si occuparono di lei, facendole indossare un abito prezioso, una collana di perle finissime, adornandole i capelli con bellissimi fiori. «In un tratto udironsi melodiosi suoni di arpe, di flauti, di viole e d’altri piacevoli strumenti di fiato e di corda», segnale dell’imminente inizio del ballo. Peregrina partecipa alle danze e ai giochi che ne seguono: «e fu un diletto e divertimento generale, e mai più veduto». A tutto questo segue il banchetto: «Le tavole eran coperte di lini bianchissimi, e v’eran vasellami d’argento e d’oro in gran copia, ed anfore e vasi con fiori (…). Sedutici agiatamente in seggiole dorate e a cuscini di velluto cremisino ci vennero apprestate (…) vivande delicatissime e in molto numero (…)».

D’un tratto fu un via vai di gente che fuggiva via «come se la volta del palazzo minacciasse rovinarle sul capo»: stava per suonare la mezzanotte! Come in una moviola al contrario, Peregrina viene rivestita dei suoi abiti sdruciti, ritrova Zio Gilletto, insieme rimontano sulle ali del papero e…  guardando un’ultima volta dall’alto: «qual fu la mia meraviglia quando vidi il giardino cangiato in un deserto, ed il bellissimo palazzo in oscuro ed ombroso noce?». Il viaggio di ritorno terminò nel punto esatto della partenza. Atterrita, Peregrina corre verso casa, incontrando per strada i suoi genitori che erano usciti a cercarla, disperati, pensando fosse stata rapita. Andarono tutti a letto, «ma chi potea dormire?». Il mattino seguente, il padre di Peregrina «si tolse sotto al braccio cinque spanne d’un querciol nocchieruto (…) recandosi difilato a casa di Zio Gilletto». Incontratolo per strada, lo percosse violentemente con quelle verghe: «Svergognato stregone (..) ti par bene condurre mia figliola a casa del diavolo, e farla trescare co’ negromanti, colle streghe e colle fattucchiere?». Per tutta risposta «il poveraccio, lacrimando e tutto macero nel volto, nella schiena e in altre parti del corpo (…) giurava e spergiurava per tutti i santi del cielo, essere innocente dell’accusa, e che ciò gli si era addebitato per male».    

  











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