E’ il mio ultimo intervento sulla questione: d’altronde la mia ricerca originaria era finalizzata solo a far meglio conoscere le vicende del suffeudo petrino e non certo ad alimentare l’annosa discussione tra comunità cittadine “sorelle
Questo breve intervento per effettuare alcune precisazioni, rese necessarie dallo scritto pubblicato da Pietro Scarciglia e Luigi Schiavoni su Manduria Oggi il 23 giugno scorso.
Seguirò l’ordine espositivo utilizzato dagli stessi, così sintetizzabile:
- Suffeudo di S. Pietro in Bevagna
Il medioevo normanno-svevo è un periodo assai meno nebuloso e più concreto di quanto non si pensi oggi. Il rapporto con la feudalità non era assolutamente regolato dal capriccio dei re che (secondo gli autori dello scritto) “disponevano dei territori a loro piacimento”, anzi vi era un forte equilibrio tra le due parti, attestato da specifici diritti dei feudatari nei confronti della corona, come quello di essere giudicati dal tribunale dei pari anche per le cause relative al feudo.
Nel contesto dell’organizzazione feudale data all’Italia meridionale dalla monarchia normanna, il suffeudo era un feudo «ottenuto immediatamente da altro feudale» e confermato, in seguito, dall’assenso regio.1 Si trattava di una feudalità, per così dire, “minore”, inserita, come già detto, nella più ampia compagine territoriale del feudo maggiore, espressione di una ragionata distribuzione e frammentazione del possesso signorile, diretta spesso a soddisfare mirate strategie clientelari (per garantirsi la fedeltà dei propri sottoposti) o di alleanza (nel caso di S. Pietro, con il potente ordine monastico benedettino).
Ciò, in ogni caso, comportava l’inclusione di questa entità in quella sovraordinata, infatti sostenevano i giuristi dell’epoca: “E perché il suffeudo è parte del feudo, una è sempre la natura; ed in conseguenza la stessa polizia e pel capo, che per la parte. E perciò dopo Andrea d’Isernia scrissero gli altri feudisti: pars regulari esse ex natura totius.”. 2
L’esistenza del suffeudo di S. Pietro in Bevagna, come parte del feudo di Casalnuovo (cd. feudo grande), insieme a S.Anastasio, Bagnolo, Comunale, Concordato di Oria, S. Cosimo, ecc. (noto invece che gli autori avetranesi evitano di usare questo termine, preferendo parlare più genericamente di feudo) è circostanza confermata da indiscutibili ricerche storiche (v. G.Jacovelli, Manduria nel 500, Congedo editore 1973, A. Pasanisi Civiltà del 700 a Manduria, Lacaita editore 1992) e da fonti documentarie (v. Catasto onciario di Casalnuovo del 1756, ecc.).
Ma vi è di più. Quando nella mia ricerca parlo di suffeudo, non faccio riferimento a cose remote (almeno rispetto ai fatti di cui parlano gli autori avetranesi), ciò perché l’istituto giuridico rivive nei documenti (e di documenti ufficiali si tratta) puntualmente citati nelle note allo stesso articolo (note che seguono la prima che è stata letta da Scarciglia e Schiavoni, ed è oggetto del loro intervento). Come credo di aver dimostrato (documenti alla mano), nonostante le leggi eversive della feudalità del periodo dei napoleonidi, il suffeudo di S. Pietro sopravvive, nella sua delimitazione territoriale e con gran parte delle sue implicazioni economiche (riscossione delle decime feudali in natura, ecc.), anche dopo seconda metà dell'Ottocento. 3
Orbene, se il territorio della Salina (non a caso denominata dei Monaci) e di Colimena erano parte del suffeudo [e su questo concordano Scarciglia e Schiavoni i quali affermano (trascrivo): “anche se, come giusto, l’ex feudo si estendeva ben oltre Torre Columena”], ed il suffeudo di S.Pietro era parte del feudo di Casalnuovo-Manduria, la deduzione più logica è una soltanto: il suffeudo presuppone sempre un feudo da cui promana che nel nostro caso, piaccia o non piaccia, è Manduria.
Quindi nessuna “deduzione indotta non dalla lettura di documenti originali” (cito gli autori), ma documenti ufficiali, anche più recenti di quelli indicati nello scritto a cui si replica (1839 per l’atto di acquisto dell’ex suffeudo da parte di Tommaso Schiavoni e 1867 per l’atto giudiziario inserito nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia).
E, detto ciò, per il resto giudicherà l’accorto lettore.
- Pagamento del caporale torriero e dei cavallari (staffette a cavallo) di servizio a Torre Columena.
La circostanza che alla retribuzione del caporale torriero e del restante personale della guarnigione abbia provveduto l’Università (Comune) di Avetrana non è significativa.
La Torre di Colimena, intesa come struttura difensiva o edificio era, al pari delle altre, di proprietà non dei Comuni ma del demanio regio (e ancor oggi, se non erro, è del demanio statale). Ciò è pure confermato dal fatto che alcune torri già esistenti, costruite da enti locali (ad esempio S. Cataldo, S. Sabina a Carovigno) o da ordini monastici (il caso di Torre S.Pietro a Manduria), passarono nella proprietà del governo vicereale previo pagamento di una indennità di esproprio. 4
Parimenti ininfluente è la circostanza per individuare l’appartenenza del territorio in cui la torre era ubicata. Il pagamento degli stipendi (al mese, 4 ducati al caporale, normalmente uno spagnolo, e 3 ducati gli altri) come è riportato da varie fonti poteva gravare, insieme anche alle spese di manutenzione della struttura, su comuni diversi da quello in cui la fortificazione si trovava.
Si può indicare come esempio (ma molti altri ve ne sarebbero) Torre Pizzo in feudo di Gallipoli, molto vicina all'abitato di Taviano, che ne traeva beneficio: “sicchè Gallipoli, già oberata da tante responsabilità militari, insisteva presso la Corte di Lecce perchè la cura della torre, e soprattutto la paga al caporale ed ai compagni torrieri, fosse assolta dai cittadini di Taviano”. A seguito delle lamentele dei gallipolini, le autorità centrali, imposero all’Università di Taviano di farsi carico delle spese.
In un successivo documento del 6 novembre 1590 l’Università di Gallipoli chiedeva nuovamente di essere esonerata dalla paga ai cavallari (nda: si trattava delle staffette a cavallo che dovevano dare l’allarme, in caso di attacco dei turchi), necessari invece per i paesi dell’entroterra, ordinari di notte e straordinari di giorno, "in quanto ne poteva fare di manco, poichè essa città è sita sopra di uno scoglio alto in mezzo del mare che facilmente il dì scopre per molte miglia a torno e, senza tenere con tanta spesa detti cavallari estraordinari, si può da se guardare come sempre ha fatto" .5
Analogo è il caso di Galatone per le spese della guarnigione della Torre del Fiume di S.Maria al Bagno (territorio di Nardò). 6 Peraltro è pure noto che un tributo specifico era imposto a tutte le Università (Comuni) entro le 12 miglia dalla costa.
Manduria, evidentemente, risultando già “impegnata sulla Torre di S. Pietro in Bevagna” (testuale, v. scritto di Scarciglia e Schiavoni) e non traendo gli stessi benefici di Avetrana dal servizio di guardiania della Colimena, aveva tutto l’interesse a sottrarsi a maggiori spese.
- Officiatura della cappella e mancata indicazione della stessa da parte dello storico Leonardo Tarentini.
- Considerazioni analoghe a quelle svolte per lo stipendio della guarnigione della Colimena, valgano per l’esercizio delle pratiche di culto nella vicina cappella
Innanzitutto vanno evidenziate le differenze concettuali tra giurisdizione ecclesiastica e civile, i cui ambiti territoriali, trattandosi di ordinamenti giuridici distinti (canonico e civile) sono differenti e non necessariamente coincidono.
Dire che il parroco del tale paese celebrava le sacre funzioni nella cappella o chiesa di un altro non significa che l’edificio di culto apparteneva al paese di provenienza del celebrante. Nel passato, quando esistevano i benefici ecclesiastici poteva accadere spesso che fosse eletto cappellano, o che risultasse titolare del beneficio, un ecclesiastico forestiero, proveniente anche da centri piuttosto distanti.
Per restare in loco, è documentato che la chiesa di S.Maria della Nova di Manduria (oggi, meglio nota come S.Lucia) era un beneficio rivendicato nel ‘500 da don Lorenzo Nigro, arciprete del casale di Uggiano (all’epoca Università o Comune autonomo), oppure che la cappella di S.Matteo nella Collegiata, era officiata nel ‘700 dall’arcidiacono della cattedrale di Gallipoli Saverio Pattotero. 7
Peraltro la maggiore vicinanza delle cappelle con Avetrana può aver ben giustificato la circostanza citata, come pure l’inclusione delle cappelline rurali nell’intinerario seguito dall’Ordinario diocesano durante la S.Visita nel paese. Ad esempio, è documentato che l’arciprete di Uggiano Montefusco, abbia celebrato fino agli anni ’60 del secolo appena trascorso nella chiesa di S.Maria di Bagnolo (di cui diremmo appresso), assai più vicina a quella comunità parrocchiale, sebbene da sempre si trovi in territorio di Manduria (in un altro suffeudo della città, quello di Bagnolo appunto). 8
In ogni caso, lo si ribadisce, la giurisdizione ecclesiastica, va tenuta distinta da quella civile.
- Neppure il fatto che il sac. Leonardo Tarentini non abbia incluso le cappelline della Salina e della Colimena nel volume “Manduria Sacra” è importante.
Infatti, va ricordato, l’opera presenta altre, simili, lacune: per esempio, lo storico mandurino non ha incluso nel suo volume la chiesa di S. Maria di Bagnolo che pure si trovava (e si trova) in territorio di Manduria e, come già anticipato, era la sede dell’omonimo suffeudo di Casalnuovo.
Si è forse autorizzati a sostenere che la chiesa molto più importante delle cappelline rurali in questione (era stata sede abbaziale), apparteneva ad altro paese?
Non lo credo affatto.
- Infine, solo come velocissimo passaggio, un accenno al “principale” documento citato dagli autori avetranesi.
Si tratta, come ormai ben noto, della memoria “difensiva” del 1810 del Sindaco di Avetrana, che é un atto della stessa parte (quindi, non un provvedimento proveniente un’autorità amministrativa o giudiziaria terza ed imparziale), per il quale è più che lecito ritenere che gli argomenti esposti siano stati quelli più favorevoli a chi l’aveva predisposto e, quindi, i più idonei a sostenerne le ragioni.
Come tale esso non ha valore probante.
Per quanto riguarda, invece, la supposta, lamentata carenza di documenti sul “versante” manduriano (affermazione infondata, in quanto i documenti ci sono, a partire da medioevo e fino alla seconda metà del 1800), valga la regola “onus incumbit ei qui dicit” (l’onere di fornire la prova incombe su colui che sostiene una determinata tesi), nota regula juris che deriva dalla saggezza dei romani e che può senz’altro acquietare dispute come questa, già in corso da tanti anni.
Orbene, a ben guardare, non mi pare che, con i “documenti” citati (per lo più atti di parte e dal contenuto non univoco), tale onere sia mai stato assolto da chi ne era gravato.
- Annullamento, per mancato versamento delle rate di prezzo, dell’atto di aggiudicazione del Comune di Avetrana del 1867.
L’argomento, ben confutato in passato dal compianto Pietro Brunetti, è sufficientemente noto e non mi soffermo a descriverlo.
Per una corretta impostazione del dibattito non si devono confondere i rapporti di diritto pubblico o amministrativo, con quelli di diritto privato.
La gara per la vendita della dismessa Salina indetta dal Demanio statale (che, come in altri casi nel resto d’Italia, aveva ricevuto la proprietà del bene per effetto di successione ai demani degli stati preunitari, a loro volta divenuti proprietari con le soppressioni degli ordini monastici e religiosi) era aperta a tutti.
Ovviamente se, accanto ad un privato, vi partecipava un soggetto pubblico (nel nostro caso, il Comune di Avetrana), questo agiva sempre iure privatorum, ossia come un normale cittadino, con la conseguenza che, in caso di aggiudicazione, acquisiva la proprietà di un immobile che poteva pure trovarsi in un altro Comune (soggetto alla giurisdizione amministrativa di quest’ultimo), dove, per fare un esempio, l’acquirente avrebbe dovuto pagare le tasse.
Conseguentemente la Salina, se acquistata da Avetrana, non sarebbe valsa a creare un’enclave nel territorio di Manduria, ma avrebbe costituito una proprietà privata di quel Comune nel territorio di un altro.
Accade anche oggi che, ad esempio, alcuni fondi rustici nel Comune di Manduria siano intestati, come privato proprietario-concedente di enfiteusi, al Comune di Francavilla, succeduto –per effetto di successivi trasferimenti effettuati dalla legge– nella titolarità di beni che, probabilmente, costituivano la dotazione dell’ospedale di quella città, ma lo stato delle cose non cambia: il bene è pur sempre nel territorio di Manduria (non di Francavilla), sebbene ne sia proprietario un soggetto pubblico, anziché un privato.
Se poi vi è stata la creduta infedeltà del funzionario comunale di Avetrana nel versamento delle rate di prezzo (ma non abbiamo mai sentito quanto questi aveva da dire a sua difesa), la questione è irrilevante: chi è causa del suo mal pianga se stesso.
E ancora se le saline fossero già state demaniali di Avetrana, che bisogno c'era di partecipare ad un asta per comprarle?
Il Comune avrebbe potuto disporne direttamente, per distribuire ai suoi cittadini ciò che già aveva.
Evidentemente non era così e poi su quali basi storiche si viene a sospettare che personaggi illustri della levatura di Nicola Schiavoni Carissimo o di Giacomo Lacaita, figure insigni di patrioti del Risorgimento, possano aver brigato a danno di qualcuno?
Ma soprattutto, gli acquirenti manduriani, dopo aver comprato all’asta il comprensorio della Salina, quale utilità avrebbero avuto nell’indurre (come si lascerebbe intendere nello scritto a cui si replica) altre pubbliche autorità comunali e statali (come il Catasto o l’Istituto Geografico Militare) ad “annetterlo” nel territorio del Comune di Manduria, togliendolo ad Avetrana? Era forse il primo un paradiso fiscale, nel quale essi non avrebbero pagato le tasse?
Ecco perché tutto il ragionamento che ruota intorno al concetto della “congiura” ai danni di qualcuno, a mio modestissimo parere, non regge.
Del resto, giusto per fare un esempio, il Catasto Onciario del 1756 riporta puntualmente il territorio di Ruggiano nell’agro di Casalnuovo-Manduria (oltre ad indicare, come proprietario della masseria omonima, il Convento dei domenicani di Manduria), mentre la zona oggi ricade in quello di Avetrana. In questa contrada molti proprietari sono manduriani e la viabilità rurale, mediante la quale raggiungono i loro terreni, purtroppo è quella che è.
Non ho notizia di dibattiti storici riguardanti l’appartenenza di queste terre, né di richieste di “revisione” di confini.
Siamo nel terzo millennio, come cittadini possiamo chiedere che un territorio sia ben amministrato (e non sappiamo quanto lo sarebbe meglio se ad amministrarlo fossero altri), ma non si possono concepire rivendicazioni di confine basate su documenti suscettibili di variegate letture, il più recente dei quali è vecchio di oltre 150 anni.
Aggiungo che non intendo più tornare sull’argomento che fin qui si è dibattuto, quasi all’infinito.
Per quanto mi riguarda, lo ritengo concluso con lo scambio di opinioni contenuto nella “precisazione” che gli autori avetranesi hanno avuto la bontà di indirizzare al mio articolo e la “replica” dello scrivente.
Del resto la mia ricerca originaria era finalizzata solo a far meglio conoscere le vicende del suffeudo petrino e non certo ad alimentare l’annosa discussione tra comunità cittadine “sorelle”.
Nessuno è depositario di verità assoluta (men che meno io) e tutti possono restare della propria opinione: siamo in “democrazia” anche per quanto riguarda il dibattito storico.
Per il resto giudicherà il lettore accorto che rimando a quanto già scritto sull’argomento, prima e meglio di me, dal compianto direttore Pietro Brunetti. 9
Giuseppe Pio Capogrosso
Note:
1 G. Vallone, Istituzioni feudali dell’Italia meridionale., editore Vielle 1999, p. 35).
2 Pietro Natale, “Per d. Simone Mattei di Castelforte. Intorno alla successione de' Suffeudi ...”; Andrea d'Isernia, In usus feudorum commentaria, Francofurti 1598, p. 276.
3 Citazione per pubblici proclami del 1867 su supplemento al n.333 del 7 dicembre 1867 della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, l’atto recita: “…suffeudo di San Pietro in Bevagna in territorio di Manduria, dipendente dalle rubriche contenute nel grande archivio di Napoli in testa al monastero dell’ordine Cassinese di San Benedetto, sotto il titolo di San Lorenzo di Aversa, da cui per le vecchie soppressioni ebbe causa il demanio, che ne fece vendita in favore del sig. Tommaso Schiavoni, padre dello istante, e dal quale egli ha causa in virtù dello strumento ricevuto dal notaro Antonio di Lecce di Napoli al primo marzo 1839; Atto di acquisto dell’ex suffeudo da parte di Tommaso Schiavoni, rogato dal notar A. de Luca di Napoli in data 1 marzo 1839.
4 Andrea Checchi , “Torri costiere: La difesa costiera nel Salento dal XVI secolo”, più precisamente Torre S.Pietro fu acquistata dal governo vicereale nel 1578.
5 Tommaso Leopizzi, “Le torri costiere intorno a Gallipoli”.
6 Salvatore Muci, “Appunti sulla torre del Fiume di S. Maria al Bagno nota come Quattro Colonne” su fondazione Terra d’Otranto.
7 Gianni Jacovelli, Manduria nel 500, Congedo editore 1973, Antonio Pasanisi Civiltà del 700 a Manduria, Lacaita editore 1992).
8 Giulio Becci, Il centro storico di Uggiano Montefusco.
9 V. il suo articolo pubblicato su La Voce di Manduria, edizione on-line, il 7.11.2013.
10 Cartolina devozionale riproducente la precedente tela di S.Pietro Apostolo, attribuita alla pittrice manduriana Olimpia Camerario. Collezione privata.